Il modello italiano? arrangiarsi

All'Italia in quanto sistema non importa praticamente nulla di procreare. O di incentivare la procreazione

Il modello italiano? arrangiarsi

Anche qui stiamo sempre a frignare come prefiche su questo cupo destino della nostra comunità italiana, condannata inesorabilmente alla desertificazione neonatale, con indicibili conseguenze sugli equilibri sociali ed economici del domani. Ogni tanto i più angosciati rompono gli indugi e smuovono la palude del piagnisteo con l'idea rivoluzionaria: il bonus bebè, bisogna introdurre al più presto il bonus bebè. Con acrobatici e complicatissimi artifici contabili, dopo lunghe notti di consultazioni interministeriali, la proposta epocale: centotrentasei euro lordi alle coppie che con alto senso civico scodellano un figlio. Naturalmente il bonus bebè è riservato soltanto alle coppie che guadagnano sotto i milleseicento euro all'anno. Naturalmente.
Ma diciamolo, una buona volta: all'Italia in quanto sistema non importa praticamente nulla di procreare. O di incentivare la procreazione. Bonus bebè a parte, la nostra tradizione è costellata di nobilissime chiacchiere e di sostanziale indifferenza. Per essere più precisi: l'indifferenza sarebbe ancora niente. La verità è che chiunque da noi decida di allargare la famiglia sa da subito di doverlo fare a proprio rischio e pericolo. A proprie spese. Ciclicamente si alza il portavoce di un'università o di un'associazione specializzata per avvertire che - ommamma - figliare costa cifre spaventose. Un tot fino allo svezzamento - pannolini, biberon, passeggini, giostre Chicco, seggioloni, girelli e vuoi negare alla creatura un mezzo zoo di peluche? -, un tot per il nido, un tot per la materna, un tot per la scuola dell'obbligo, poi via via, voce per voce, se vogliamo fino alla laurea, per scoprire che sostanzialmente i figli sono ormai alla portata soltanto di sceicchi e magnati russi, come le squadre di calcio e i team di Formula Uno.
Eppure continuiamo a dirci come anime belle che bisogna fare di tutto perchè le giovani donne italiane tornino a partorire in letizia e serenità: loro, che nella maggioranza dei casi condividono con il compagno di vita contratti precari a settecento euro il mese. Servono più asili pubblici, diamine: basta con quelle intollerabili liste d'attesa che in pratica obbligano un genitore a prenotare il posto prima ancora del concepimento, meglio ancora prima del matrimonio, perfetto prima ancora di lasciare lui stesso l'asilo nido. Servono più asili anche nelle fabbriche e negli uffici, diavolo: e pazienza se questa bella favola viene applicata nel mondo reale soltanto dentro pochissime multinazionali e dentro encomiabili aziende dell'eccellenza italiana. Servono assistenze pediatriche, servono tutele, servono detrazioni: servirebbe di tutto, servirebbe sostanzialmente un poco di sana sensibilità umana, sincera e lungimirante, ma il massimo che ci riesce di spadellare è immancabilmente il bonus bebè, alle condizioni e nei limiti previsti, naturalmente. Naturalmente.
Cosa deve fare allora una società così incapace di apparecchiare il mondo a chi voglia allargare la famiglia, così mestamente avviata alla sterilità coatta? In Italia non esiste campagna davvero utile, davvero efficace. Guarda caso, come davanti a tutti gli altri problemi fondamentali del vivere, abbiamo applicato strada facendo, nel solito modo strisciante e fatalista, il nostro atavico emendamento: in mancanza di meglio, arrangiarsi.

Consapevoli di non poterci più permettere neo-nati, da anni ormai ci siamo rassegnati ad importarli, come il petrolio e come il gas. Li facciamo arrivare nelle condizioni più disumane, sulle carcasse del mare, accuditi da satanici scafisti. Ma il futuro è assicurato. In qualche modo. Senza bonus bebè.

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