Il modello tedesco? È soltanto un'utopia

Le norme non bastano: reintegro o no, in Germania il sistema si regge sulla cogestione delle aziende tra dipendenti e azionisti

Il modello tedesco? È soltanto un'utopia

Si fa presto a parlare di modello tedesco. E chi in questi giorni cita a ogni passo la Germania come esempio per l’articolo 18 farebbe bene a leggere la Bild. Il giornale popolare più diffuso tra le Alpi e il Baltico dedica spesso articoli e commenti scandalizzati ai cosiddetti «Bagatellkündigung», i licenziamenti per motivi che un giurista italiano definirebbe «bagatellari». Qualche esempio: un impiegato licenziato per aver caricato il telefonino a spese dell’azienda (danno 0,014 euro). Oppure l’infermiere di un ospedale buttato fuori per aver raccattato due panini destinati al vitto dei malati. O ancora, l’inserviente di un supermercato mandata a casa per aver mangiato un paio di caramelle prese da uno scaffale.
Il caso più famoso riguarda una cassiera della catena Tengelmann (una specie di Esselunga locale), che aveva trattenuto per sé due buoni sconto dal valore complessivo di 1,30 euro. Il tribunale del lavoro ha dichiarato assolutamente valido il licenziamento. Per difendere la donna, che aveva un’anzianità aziendale di ben 31 anni, è intervenuto persino il presidente del Parlamento: «Una sentenza barbara». Solo il tribunale federale del lavoro (la più alta istanza giudiziaria) ha cassato il provvedimento e ordinato il reintegro.
Si è trattato di un’eccezione. Perché l’obbligo di riassunzione, anche nei casi di licenziamento per motivi banali, è raro. E di solito il procedimento giudiziario finisce con la conferma dell’allontanamento dal lavoro o con un accordo tra le parti. Il principio è che non conta tanto l’entità del danno causato, quanto la rottura del rapporto di fiducia. È tutto è la conseguenza, forse paradossale, di un sistema che si regge sulla partecipazione, a 360 gradi, dei lavoratori alla vita dell’azienda e che nei grandi gruppi è basato sulla celebrata Mitbestimmung (cogestione). I lavoratori eleggono la metà del consiglio di gestione. L’altra metà e il presidente (il cui voto risulta decisivo in caso di contrasto) sono eletti dagli azionisti. Non solo. In azienda si riunisce periodicamente il cosiddetto Comitato economico, formato dai manager di vertice e dai rappresentanti dei sindacati, che discutono con la massima trasparenza dei problemi e dell’andamento della fabbrica. Tutti devono sapere tutto. Tutti, sindacalisti compresi, hanno diritto di aver accesso a ogni documento interno. A memoria di esperti non si ricorda un caso di rappresentante dei lavoratori che abbia utilizzato in maniera impropria le informazioni di cui è entrato in possesso.
Il processo di immedesimazione con le sorti dell’impresa è tale da raggiungere livelli difficilmente comprensibili in Italia. Francò Tatò, manager di lungo corso e con importanti esperienze di lavoro in Germania, ha raccontato di quando dovette affrontare la crisi della Triumph Adler licenziando 120 persone. In questi casi in Germania sono i sindacati a dover decidere insieme all’azienda chi lasciare a casa, mediando tra esigenze produttive e problemi personali e familiari: «Dopo l’accordo sugli esuberi venne da me il presidente del Consiglio di fabbrica e mi pregò di licenziare non 120 ma 140 persone. Assumendo però i 20 apprendisti che terminavano il contratto, perché erano loro il futuro dell’azienda».
Naturalmente l’obbligo di lealtà e di rigore nei confronti dell’impresa è un’arma a due lame: vale anche e soprattutto per manager e per gli stessi imprenditori. Il dirigente che utilizzasse per obiettivi personali i beni aziendali o che promuovesse la sua amichetta senza particolari meriti dovrebbe fare i conti con un fuoco di sbarramento a tutti i livelli: dai sindacalisti ai suoi stessi colleghi. Allo stesso modo è raro che l’imprenditore imponga i suoi figli (spesso e fatalmente meno capaci di lui) ai vertici di un’azienda. A spiegarne le ragioni è ancora Tatò: «Tutte le imprese nascono da un imprenditore capostipite.

Nel momento, però, in cui quest’ultimo lascia il timone, in Germania l’azienda non viene più considerata un bene solo personale, ma un patrimonio di interesse collettivo». E il primo a rendersene conto è l’imprenditore che si regola di conseguenza. Insomma: articolo 18 oppure no, a fare la differenza non sono le norme ma le teste.

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