Un lavoro perfetto, un lavoro inutile. Tre anni e mezzo dopo, la scienza prestata alla giustizia consegna il tremendo caso di Yara direttamente all'assurdo. È tutto chiaro, è tutto ignoto. L'assassino è sicurissimamente il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, l'autista di Gorno morto a 61 anni nel 1999. Non ci sono più dubbi: tutti i test confermano (...)
(...) che le tracce organiche ritrovate sul povero cadavere della ragazzina sono di quell'uomo. Il caso è risolto, il caso è irrisolto. Purtroppo dell'assassino sappiamo tutto fino ai particolari più intimi, fino al suo Dna, ma ci mancano ancora due dettagli: un nome, un volto. Lo spregevole individuo è l'erede fantasma in una famiglia fantasma, improvvisata carnalmente nella clandestinità un certo numero di anni fa, ma mai emersa dal suo segreto. Padre morto senza rivelare niente, madre ignota (magari morta pure lei), figlio irreperibile, nascosto nel nulla. Sperando almeno gli faccia assidua compagnia un insostenibile rimorso.
Questa penosa storia di Yara non fa che aggiungere pena ad ogni passaggio successivo. Come in un diabolico labirinto, più ci si avvicina all'uscita, più ci si allontana. Anche questa soluzione finale è la più subdola delle non soluzioni. Certo consola sapere che l'inchiesta, inizialmente impappinata e ingolfata, svagata e scalcagnata, ha saputo poi imboccare la strada delle investigazioni più sofisticate, risalendo instancabilmente a ritroso dal semplice residuo organico fino al figlio illegittimo di un autista, che è come sbrogliare un'enorme matassa aggrovigliata tenendo in mano solo uno sfilacciato estremo del filo. Ma dopo tre anni e mezzo, dopo 18mila test del Dna, dopo mille piste e altrettanti binari morti, che cosa resta? Resta che bisogna consegnare all'inconsolabile mamma di Yara e alla sua famiglia il peso atroce di un paradosso: del maniaco assassino sappiamo tutto, ma non sappiamo nulla. Sappiamo com'è, non sappiamo chi è. Inesorabilmente, anche questa operazione ricorda molto il grottesco modo di dire medico: l'intervento è perfettamente riuscito, il paziente è morto.
Così è, tre anni e mezzo dopo. Forse quest'ultima certezza acquisita può sollevare in qualche modo gli inquirenti, rassicurati sulla validità del loro lavoro.
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