Nel "deposito di uomini" da cui si parte per l'Italia

A Shura Ashuk, alla periferia di Tripoli, migliaia di clandestini africani si accalcano in case miserabili: attendono di imbarcarsi per Lampedusa. SEGUI IL REPORTAGE DALLA LIBIA

Nel "deposito di uomini" da cui si parte per l'Italia

La porta si schiude, un volto nero e due occhi candidi ti scrutano sospettosi. I tuoi si spingono oltre, incrociano la disperazione. Alle nostre spalle ci sono Tripoli, il quartiere di Shura Ashuk, le facce pazienti degli africani allineati agli incroci in attesa di qualcuno disposto a comprare un'ora del loro lavoro. Qui oltre il cemento cariato di questa palazzina fatiscente, oltre il suo portone rugginoso si muove l'umanità in attesa del grande balzo oltre il Mediterraneo. Ieri 800 come loro ce l'hanno fatta. Hanno approfittato del mare calmo, sono saltati su barche e gommoni, si son fatti salvare dalle navi della nostra Marina. Qui invece attendono ancora. Nel cortile assolato vagano uomini vestiti di stracci, ruzzolano bimbi di tutte le età, sciacquano il bucato decine di donne avvolte in scialli a fiori. Tutt'attorno il lezzo di urina e sudore si mescola all'aroma vaporoso di cibo ribollito. Trasuda dalle tende tirate alla meglio per chiudere otto stanzoni trasformati in gironi dell'attesa. Quello degli uomini soli, quello per le famiglie e quello delle donne. Dal girone delle famiglie s'affaccia Ibrahim. È fuggito dall'Eritrea nel 2007, ha attraversato Sudan e Sahara. Il passar di anni e deserti è disegnato nelle rughe del suo volto. Ibrahim ti fa segno d'entrare. Sulla stuoia sudicia è raggomitolata Lettenzi, sua sorella. Ha 38 anni, un'accettata di dolore le taglia la schiena, la piega al pavimento. «L'Italia –sussurra Ibrahim - è la sua ultima speranza, qui non la cura nessuno se non ci mettiamo su una barca la perderò». Come tutti i duecento e passa inquilini di questa palazzina parcheggio, attendono solo la traversata per l'Italia e l'Europa. Con loro ci sono Danait, Mikias e Zara. Hanno dieci, otto e tre anni, sono i figli messi al mondo da Lettenzi e dal marito negli anni della transumanza. Il marito e i due rampolli più grandi, Nardos di 17 e Miral di 19, sono a lavorare, a raggranellare il malloppo per il viaggio. «Dobbiamo tirar su 1600 dollari a testa per me, Lattanzi e suo marito. I figli non pagano. Partiremo tra giugno e luglio quando il mare è più calmo».

Il sogno di Ibrahim e Lettenzi è lo stesso delle migliaia di clandestini stipati nelle case di questo quartiere dormitorio. Un quartiere trasformato in deposito d'umani dai trafficanti d'uomini e diventato un polmone di quest'economia sommersa. Un angolo di questi stanzoni costa cento dollari a testa al mese. Moltiplicati per le decine di dormitori lager di Shura Ashuk rappresentano un'autentica economia parallela. Più in basso nella scala dell'attesa ci sono i centri di detenzione o le galere. I centri di detenzione - condannati un tempo come orrori gheddafiani o come conseguenze dei patti anti immigrati tra Italia e Libia - sono ancora lì. Attorno a Tripoli funzionano a pieno ritmo quelli di Gharyan e di Towisha. Oggi puoi persino chiedere di visitarli ufficialmente. Ma, com'è successo a Il Giornale, il permesso non viene poi rilasciato. Più in basso nella scala dell'orrore ci sono le galere delle varie milizie. Non paghi di contendersi con le armi il controllo di città e territori i gruppi armati si spartiscono anche immigrati e prigionieri. «Ho passato quattro mesi nella galera di una milizia e mi sono pentito di esser fuggito dalla Somalia. Neanche in mezzo alla guerra, neppure tra gli shebab ho visto cose del genere - racconta Omar, arrivato fin qui da Kisimaio - se uno di loro veniva ferito ci portavano all'ospedale e ci costringevano a donare il sangue. Una volta mi hanno succhiato mille centimetri cubici. Poi mi hanno riportato in cella e sono finito in coma. Di notte bevevano, si ubriacavano e per divertirsi sparavano con i kalashnikov nelle celle». In mezzo a questa umanità sfruttata non si muove una sola organizzazione umanitaria. Le organizzazioni non governative presentissime a Lampedusa, l'Alto Commissariato dei Rifugiati sempre in prima linea nel puntare il dito contro l'Italia, l'Unione Europea sempre puntuale nell'accusarci qui non muovono un dito. L'unica a curarsi di questi disgraziati, a portar loro medicine e aiuti è madre Emma Moja, una suora spagnola delle figlie della Carità. È arrivata in Libia 14 anni fa, lavora con il vescovo Giovanni Martinelli e due volte alla settimana bussa alle porte di questi dormitori dimenticati, cerca posto negli ospedali per malati e sofferenti. «Qui c'è di tutto, dalla scabbia alla polmonite, vivono uno accanto all'altro e si contagiano a vicenda eppure - sussurra - nessuno fa nulla, queste creature sono abbandonate e disperate».

L'unico modo per sottrarsi a questa disperazione è affrontare l'ultimo viaggio. Uno dei blocchi di partenza è Zuara, un porto 75 chilometri ad ovest di Tripoli, centro della tratta di uomini. Per capirlo basta avvicinarsi alla città. Parcheggiate nel piazzale di un cantiere marino ci sono le carene in costruzione dei barconi usati per raggiungere Lampedusa. «Ufficialmente vengono costruite per la pesca, ma ormai il principale mercato è la tratta degli umani. Vengono registrati in Tunisia e poi riportati qui per usarli nella tratta degli immigrati», spiega un ufficiale di polizia di Zuara che si rifiuta di dare il proprio nome, ma si lamenta di non avere né mezzi, né strutture per fermare il traffico. «La spiaggia da cui partono la conosciamo tutti, è quella di cinque chilometri a ovest dalla città. Voi italiani invece di spendere tanti soldi con le vostre navi dovreste darci un paio di elicotteri e di barche. Poi i clandestini ve li fermiamo noi», assicura l'ufficiale. Da quella spiaggia partiranno tra qualche settimana o mese anche Ibrahim, Omar e tutti gli altri ospiti dei lager dormitorio di Shura Ashuk. Ma a differenza di un tempo quel viaggio non fa più paura.

«Una volta era rischioso, moriva tanta gente, ma ora non è più così: il vostro governo e la vostra marina ci aiutano - spiega Ibrahim. I nostri compagni quelli già partiti ce lo ripetono sempre, basta chiamare un numero di telefono e l'Italia manda le barche a salvarci. Per questo non abbiamo più paura. Aspettiamo solo di trovar i soldi per partire».

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