Passera promette la «crescita» ma non fa sconti sulla nuova Iva

Passera promette la «crescita» ma non fa sconti sulla nuova Iva

nostro inviato a Cernobbio (Como)

«Non ci accontentiamo dello zero, possiamo ritornare ad una fase di crescita». Il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, cerca di dispensare un po’ di ottimismo alla preoccupata platea del Forum di Confcommercio a Cernobbio. Ma a ben guardare il primo a ricordare che «non è passata la crisi» è stato proprio lui.
E dinanzi ai commercianti non ha potuto trascurare quella che è il vero timore delle imprese del terziario: l’aumento delle aliquote Iva (dal 10 al 12% e dal 21 al 23%) previsto dalla manovra salva-Italia a partire da settembre se non si troveranno «altre fonti». Passera si è ben guardato dal propinare proclami tranquillizzanti (e così ha fatto pure il viceministro dell’economia Grilli) ricordando che la necessità è stata quella di «far quadrare i conti». L’impegno per evitare questa estrema ratio «riguarda tutti», ha aggiunto sottolineando che «se si trovassero altre fonti strutturali, sarebbe meglio» e che l’esecutivo si sta concentrando su «spending review e recupero dell’evasione».
La «clausola Iva» ha un costo elevato per il sistema produttivo. Secondo l’Ufficio studi di Confcommercio, considerato l’aumento già operato nello scorso settembre, la perdita cumulata di spesa per consumi nel quadriennio 2011-2014 è stimabile in 38 miliardi di euro.
E come i tasselli di un domino, la flessione dei consumi (già attesi in calo del 2,7% quest’anno da Piazza Belli, significa meno fatturato, meno utili, meno posti di lavoro, più disoccupazione, meno pil e più debito. Con il rischio sempre latente di manovre recessive. Per le aziende, inoltre, il problema di un’eccessiva pressione fiscale non è l’unico da affrontare. La crisi finanziaria si è riflessa sui bilanci delle banche che, per contro, hanno deciso di restringere gli affidamenti per preservare il patrimonio messo a rischio dagli spread. D’altronde, come ha confermato di recente l’Abi, la crescita dei finanziamenti si è praticamente bloccata (+0,6% a marzo).
La Cgia di Mestre ha però messo in evidenza un altro problema. Non si tratta solo di credit crunch, ma anche di una questione di nome. Al 31 marzo 2011, l’ammontare dei prestiti erogati alle imprese era pari a 1.393 miliardi di euro ma il 78,8% (1.098 miliardi) del totale era stanziato a favore del primo 10% degli affidatari. Che in maggioranza sono grandi imprese. A livello territoriale Milano è un caso di scuola: il 92,2% dei 261,3 miliardi di finanziamenti erogati alle aziende finisce nelle casse del primo 10% degli affidatari. Corsie preferenziali per i grandi clienti anche a Bologna (88%), Roma (85% e Firenze (80%). «La quota di insolvenza in capo dei maggiori affidatari è pari al 78,6%», ha dichiarato il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi ricordando che «nei rapporti tra banche ed imprese tutto è paradossalmente capovolto: chi riceve la stragrande maggioranza dei soldi presenta livelli di affidabilità bassissimi».
Cifre in generale contestate dall’ad di Intesa Sanpaolo, Enrico Tomaso Cucchiani. «Negli ultimi 13 mesi, dal 31 dicembre del 2010, le nostre erogazioni alle aziende aderenti a Confcommercio sono cresciute dell’8,7%, pari a 75 miliardi», ha rilevato ricordando che si tratta di «una cifra importante».
Non sorprende, tuttavia, che in questo particolare momento storico, anche una platea non «sinistra» come quella di Confcommercio tributi applausi al segretario generale della Cgil, Susanna Camusso solo perché ha ribadito la «straordinaria urgenza di abbassare la pressione su lavoro e aliquota Iva». È un ulteriore paradosso, ma in fondo comprensibile.

Se Confcommercio stima una caduta dell’1,3% del pil quest’anno (Confindustria è più ottimista e vede solo un -1%), chiunque abbia la fantasiosa (e incosciente) temerarietà di parlare di riduzione delle tasse, non può non suscitare simpatia.

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