Il polverone della P4 scatena la guerra al Corriere della Sera

MilanoQuando si dice il fuoco amico. Dev’essergli andata di traverso, la lettura del giornale. Un boccone difficile da mandare giù. Peggio di un sasso nello stomaco. Perché quel giornale è il suo giornale. Quello in cui è diventato caporedattore. Poi è arrivato giovedì e avrà pensato che qualche Giuda gli ha fatto lo sgambetto. Come ogni mattina, ha aperto il quotidiano. Il suo. Si è tuffato in un lenzuolo di intercettazioni scritte da una collega. Una sua collega, una delle migliori. Quindi è passato a pagina 3, taglio basso. «Baudo e la Ferrari nella rete di politici e star - è il titolo -. Nelle diecimila pagine di verbali anche Scajola, Frattini e D’Agostino». E ha iniziato a scorrere anche quelle righe, perché un buon giornalista guarda tutto e non si perde il piatto del giorno. E giovedì, main course è l’inchiesta sulla P4. Così Corrado Ruggeri, giornalista del Corriere della Sera, legge. E legge anche questo. Che è «lungo l’elenco del mondo dei media» che avrebbe a che fare con Luigi Bisignani, il grande tessitore con un piede a palazzo Chigi e l’altro in Vaticano e le mani un po’ ovunque. «Da Mario Orfeo ad Alessandro Sallusti, a Roberto D’Agostino, ad Angelo Maria Perrino». E poi di nome ce n’è un altro. Il suo.
È il frullatore dell’inchiesta napoletana, sono migliaia pagine di atti, verbali e intercettazioni che tirano dentro tutto e tutti, politici-imprenditori-finanzieri-affaristi in un gioco (o reato, lo stabiliranno i giudici) di lobbying e chiacchiere, pressioni e millanterie. E nella rete cascano anche i giornalisti, come Ruggeri. Che non ci sta. Così, ieri, il Corsera pubblicata la sua smentita. «Non conosco Bisignani - scrive il caporedattore della cronaca romana - non ci ho mai parlato, non ho nemmeno letto i suoi libri. Ma nonostante questo sono apparso, peraltro sul mio giornale, nell’elenco di quelli che comporrebbero la sua rete». E detto che «non è illegale parlare con questa persona», «è davvero sorprendente che si venga arruolati fra i suoi contatti senza averlo mai visto in faccia né averci scambiato una parola». L’ha presa male, malissimo, facendo scoppiare un piccolo-grande caso in via Solferino e sarebbe pronto - dice qualche collega - a fare causa al suo stesso giornale. Non l’ha digerita, e come dargli torto. Sputtanato in casa propria, per quanto - come sottolinea nella replica - non ci sia necessariamente qualcosa di marcio nello scambiare due parole con Gigi B. Che parla con tutti, traffica, dispensa consigli, s’arrabatta e tesse la tela. I reati? Si vedranno. Intanto fa tutto brodo. Un fiume di intercettazioni, alcune importanti e altre no. Nomi pescati dai pm e buttati nel faldone alla faccia di privacy e garanzie, soprattutto quando la rilevanza penale delle conversazioni o delle circostanze è tutt’altro che evidente.
Smentiscono, quelli che leggono il proprio nome sui giornali. Una sindrome da contagio, una febbre da pestilenza che contagia chi ha avrebbe avuto contatti con il paziente zero, col grande untore Luigi Bisignani. Perché se Bisignani rimestava nel torbido, allora era in grado di sporcare le acque altrui. Incluse quelle del giornalismo. Bisignani che secondo i pm Greco e Woodcock manipolava l’informazione per «esercitare il potere», e che - scriveva lunedì il quotidiano La Repubblica - aveva un «capillare sistema di relazioni nei media, in un perimetro definito dalla Rai di Mauro Masi, dal sito Dagospia, dal quotidiano il Giornale». La «macchina del fango» che viaggia a pieno regime. Poi uno legge le carte. E stai a vedere che forse la «macchina del fango» è una faccenda da parolai. Che un conto sono i crimini, altro le chiacchiere da gradassi. C’è da organizzare uno schizzo di melma con il Giornale? Ci pensa Bisignani. Ma c’è - perché c’è anche quello, agli atti - da mettere il silenziatore a due corazzate come Corriere e Repubblica? E che ci vuole, ci pensa sempre lui. L’eminenza occulta, il manovratore. Gigi. O meglio, Gigi lo dice. Che lo faccia, poi, è un’altra storia.
Come quando al telefono ha dovuto rispondere all’incazzatura di «Gianni». Che poi dovrebbe essere Gianni De Giovanni, capufficio stampa dell’Eni. Il cellulare di Bisignani squilla alle 10 e 18 del mattino. È il 5 dicembre dello scorso anno. Sono i giorni dei calbogrammi di Wikileaks, delle inchieste sulle relazioni fra i potenti del mondo. E sugli affari legati al petrolio. Quel giorno, il Corsera esce con un pezzo tutt’altro che morbido con il Cane a sei zampe. La firma è di Massimo Mucchetti, vicedirettore ad personam del quotidiano di via Solferino, e grande esperto di economia e finanza. Titolo: «Eni, Gazprom e i sospetti su due affari. Mentasti bocciato non da Scaroni ma da Clò e Fruscio. I motivi ufficiali a favore della pipeline non convincono gli amministratori. Le forti riserve del cda Eni sul progetto South Stream». Tanto per capirsi, l’articolo inizia così: «L’Eni ha un problema». «Siamo a Bagdad, noi», esordisce De Giovanni. «Volevo dirti, è uscito sulla pagina del Corriere un altro...». «Ho visto», interviene Bisignani. «Allora - prosegue il capufficio stampa - io ho detto che l’unica cosa che possiamo fare è eventualmente fare una battuta, se non cambia la strategia (...). Dopodiché stiamo cercando Clò (consigliere di Eni, ndr) perché abbiamo il sospetto che abbia parlato con Mucchetti e quindi diremmo a Clò di fare un’intervista in cui precisa lui al Corriere le cose che ha scritto Mucchetti oggi». «Direi che quella è la cosa migliore», commenta Bisignani. Che poi aggiunge «se Clò dice: “tutte le cose del cda sono sempre state all’unanimità è finita lì». Insomma, «io farei qualla cosa lì, poi richiamami». Che significa, che la longa manus di Bisignani arriva fino in via Solferino? Mah. La cosa certa è che l’intervista «riparatrice» di Mucchetti a Clò non esce. In compenso, sempre Mucchetti scrive «Tutti i dubbi degli affari Eni in Russia» (9 dicembre 2010) e «Quei 45 milioni al piccolo oligarca russo» (12 dicembre 2010). Il grande tessitore Bisignani deve aver sbagliato numero.
O forse la «macchina del fango» funziona più come slogan che come ufficio veline. Tanto che a Gigi B. arriva un’altra telefonata. Il tema è sempre lo stesso, ma la conversazione è dell’8 dicembre scorso. A chiamare è Gianluca Comin, direttore delle relazioni esterne di Enel. «Sono un po’ preoccupato per l’Eni - dice Comin -, perché li vedo un po’ fermi e stanno arrivando valangate di roba, oggi anche Repubblica è partita». Il quotidiano di Ezio Mauro, infatti, quel giorno pubblica una lunga inchiesta firmata da Giuseppe D’Avanzo, Andrea Greco e Federico Rampini. Titolo: «Berlusconi, Putin e quel biglietto. La vera storia del gas di Mosca». «Sì, va bene - commenta Bisignani - è partita con una roba che però non ha senso». «Lo so - commenta Comin - però quando metti tre inviati di quel calibro il senso diventa politico». Bisignani consiglia di non rispondere subito, di aspettare e non alimentare la polemica, tanto «non ci si aspetta nulla di clamoroso», e «usciranno le ennesime chiacchiere, quelle che dico sempre». Ottimista, Bisignani. Repubblica non molla l’inchiesta. Nei giorni successivi, D’Avanzo, Greco e Rampini riempiono pagine su pagine sugli «affari tra Putin e Berlusconi». E dov’è finita la manipolazione dell’informazione? Funzionerà mica solo con il Giornale? Qualche dubbio. Che è Bisignani a dirlo, al telefono con Flavio Briatore il 9 ottobre 2010. Sono i giorni del presunto dossier su Emma Marcegaglia.

«Il Giornale è un danno pazzesco, ma ti pare che ci si mette contro gli industriali? Cioè, fanno un danno a Berlusconi pazzesco». Così parlò l’uomo al volante della macchina del fango. E allora o è schizofrenico o molte sono chiacchiere. E con le chiacchiere non si detta la linea a nessuno.

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