La sentenza

Milano«Il fatto non sussiste». Cadono così le accuse di truffa ai danno dello Stato e dichiarazione dei redditi infedele per una presunta (e colossale) evasione fiscale da un miliardo di euro a carico di Domenico Dolce e Stefano Gabbana. I due stilisti sono stati prosciolti ieri dal giudice per le udienze preliminari Simone Luerti, secondo il quale - in attesa di leggere le motivazioni della decisione, che saranno depositate fra trenta giorni - non sarebbe stato superato il confine del rilievo penale. Respinta, dunque, la richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm di Milano Laura Pedio, che aveva chiesto il processo per i due sarti d’élite e altri cinque imputati, tra cui Alfonso Dolce (fratello di Domenico), un commercialista e gli amministratori della «Gado sarl», società controllata dalla «Dolce & Gabbana Luxembourg». Nessun reato, dunque, ma resta in piedi il procedimento amministrativo per venire a capo dei mancati versamenti all’Erario. I titolari della maison presenteranno ricorso alla commissione tributaria provinciale. Nel caso in cui fosse respinto, D&G potranno fare appello alla commissione regionale, secondo e penultimo grado prima - eventualmente - di passare alla sezione tributaria della Cassazione.
Perché lo Stato - nonostante l’indagine penale si sia chiusa in favore dei due stilisti - non ha affatto rinunciato a quelle che ritiene le proprie spettanze. Lo scenario, in questo senso, è piuttosto semplice. Al termine del procedimento amministrativo, infatti, la commissione tributaria potrà confermare la sanzione, ridurla o annullarla. Per il momento, però, la spada di Damocle del Fisco rimane sulla testa dei due stilisti, che - stando al capo di imputazione della procura - avrebbero evaso il Fisco per un imponibile di 416,8 milioni ciascuno, oltre ad altri 200 milioni di euro di presunto imponibile evaso riferibili proprio alla «Gado». A conti fatti, più di un miliardo di euro, su cui l’Agenzia delle entrate calcolerà l’imposta da versare. Ma come nasce l’accusa di truffa Stato?
Tutto ha inizio nel 2004. Dolce e Gabbana controllano i marchi dell’azienda attraverso la «D&G srl», società italiana partecipata in proporzione paritetica e a cui fa capo l’intera catena societaria, ricevendone in cambio le «royalties». Sugli introiti della «D&G» il gruppo in Italia paga un’imposta (l’Ires) del 33 per cento. Così - secondo la Procura - i due stilisti avrebbero deciso di cercare un Fisco più benevolo. In Lussemburgo. È lì che nascono la «Dolce&Gabbana Luxembourg sarl» e la «Gado sarl», controllata dalla prima al 100 per cento. Nello Parallelamente, la «D&G» cede per 360 milioni di euro i marchi dell’azienda alla «Gado». Troppo poco, secondo gli inquirenti: un prezzo inferiore rispetto al reale valore dei marchi per pagare meno tasse allo Stato. Inoltre, quelle società sarebbero state solo «scatole cinesi». Un complesso meccanismo di «schermi» che avrebbe permesso al gruppo di Domenico Dolce e Stefano Gabbana di «fermare» la tassazione al 2-3 per cento e di abbattere l’imponibile della «Dolce&Gabbana srl». Non così, invece, per il giudice che ha prosciolto gli imputati.

O almeno - e questo punto sarà chiarito dal deposito delle motivazioni -, non nella misura indicata dal pm. «Pretendevamo l’assoluzione - è il commento del legale di Dolce e Gabbana, l’avvocato Massimo Dinoia -. È ovvio che ce l’aspettassimo. Se il fatto non c’è, non c’è».

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