Il sire di palazzo Chigi che ha governato più di tutti: 3339 giorni

La sua discesa in campo nel '94 per sbarrare la strada alla "gioiosa macchina da guerra" di Occhetto. È stato un colpo di genio andare a pescare nel mare azzurro del moderatismo diffuso. Non durò troppo, complici le Procure, ma guidò altri tre esecutivi. Sino alle dimissioni sofferte, nel 2011, "per non mettere a rischio il Paese"

Il sire di palazzo Chigi che ha governato più di tutti: 3339 giorni

Insomma, «si contenga», diceva. Lui invece no, non si è certo contenuto. Quattro volte presidente del Consiglio, recordman assoluto della permanenza consecutiva a Palazzo Chigi, cioè una legislatura intera, 3.339 giorni complessivi a capo del governo tra il 1994 e il 2001, che più o meno fa una decina d’anni. Numeri, voti, risultati, odio, amore. Ma è soprattutto l’impronta di un trentennio quella che resta agli atti, i tre decenni, ammirati, contestati e contrastati, che hanno rovesciato la vita pubblica del Belpaese. Si poteva essere con il Cavo contro il Cav, ma non senza il Cav, come sintetizza nel suo messaggio Sergio Mattarella. «È stato un grande leader che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi. Ha plasmato la nuova geografia della politica italiana, affrontando eventi di portata globale”.

«L’Italia è il Paese che amo», ecco la sua frase iconica della discesa in campo. Sotto c’erano la voglia di sbarrare la strada alla gioiosa macchina da guerra post comunista di Achille Occhetto, che nel 1994 tutti davano per sicura vincente, e l’idea geniale di colmare il vuoto che si era aperto all’improvviso al centro, dopo Tangentopoli e la dissoluzione dei partiti tradizionali. Berlusconi mise d’accordo «il diavolo e l’acqua santa», si fece «concavo e convesso» e riuscì a schierare una coalizione con i leghisti nordisti piuttosto autonomisti e agitatori di cappi in Parlamento e i post missini statalisti forti al sud. E, grazie anche alla parlantina e all’effetto calza sulla telecamera, vinse a sorpresa le elezioni.

Era riuscito cioè, nel giro di pochi mesi, a completare le due operazioni più spericolate della recente storia politica. La prima, scongelare i paria Fini e Bossi e renderli utili alla causa. La seconda, pescare nel grande mare azzurro del moderatismo diffuso, della maggioranza non di sinistra del Paese, di colpo orfana della Dc e dei suoi alleati laico-socialisti. L’imprenditore, l’uomo del fare, il mito un po’ americano di chi si è fatto da solo e coglie le opportunità. Il seduttore che voleva piacere a tutti, anche all’opposizione, era riuscito a far uscire i liberali dai salotti snob e ammuffiti e a metterli al timone. Da lì in poi la scena italiana non è stata più la stessa. Il bipolarismo si è radicato almeno fino al 2011, fino ai governi tecnici, alle grandi coalizioni, ai grillini. Si può dire che Berlusconi lo abbia fisicamente incarnato. O di qua o di la, e anche se non c’era il nome sulla scheda gli elettori sapevano chi sarebbe andato a Palazzo Chigi.

E molto liberale e liberista era la piattaforma del suo primo esecutivo, nato il 10 maggio 1994, e composto da Forza Italia, Lega, An e Ccd. Riforme economiche, meno tasse, giustizia da rivedere. Non durò molto, proprio per lo scontro con i magistrati, per l’ostilità del Quirinale e per gli avvisi di garanzia recapitati nel bel mezzo di un vertice internazionale sulla sicurezza.
Non durò anche perché Bossi e Buttiglione, convinti da D’Alema nel famoso pranzo di Gallipoli con la scatola di tonno, decisero di sfilarsi. Il 17 gennaio 1995 Silvio Berlusconi passò la mano e al suo posto Scalfaro incarico il ministro dell’Economia Lamberto Dini.

L’anno dopo il Cavaliere perse le elezioni contro l’Ulivo di Romano Prodi e si attrezzò ai cinque anni successivi di opposizione, la «traversata nel deserto». Navigando riuscì comunque ad uscire dall’angolo grazie al patto della crostata siglato con Massimo D’Alema a casa di Gianni Letta, un accordo che prevedeva la formazione di una bicamerale per le riforme istituzionali. La commissione trattò e discusse, fece e disfece, sfiorò soltanto l’obbiettivo di riscrivere la Carta, ma consentì a Berlusconi di guadagnare, dopo quella popolare, anche una legittimazione da parte del centrosinistra. E comunque sia, grazie pure alle ambizioni di D’Alema, indebolì Prodi, che fu costretto a lasciare Palazzo Chigi al segretario dei Ds.

Che a sua volta resse poco, un annetto. Le Regionali del 2000, con la campagna creativa e spettacolare condotta sulle navi, portarono il centrodestra a un’ampia vittoria e D’Alema alle dimissioni. Nel 2001 la rivincita del Cav. Un quinquennio aperto sulla spinta del «contratto con gli italiani» siglato da Bruno Vespa a Porta a Porta, un colpo di teatro sul quale gli avversari hanno ironizzato parecchio ma che al dunque spostò gli indecisi e convinse la gente a votare per lui. Anni difficili, tra terrorismo internazionale, aggressione delle procure, leggi controverse. Un po’ meglio andava nei rapporti con il Colle, con Carlo Azeglio Ciampi eletto anche dal centrodestra. Due governi in quel periodo, uno dietro l’altro. Il primo dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005, il secondo, dopo l’uscita dalla maggioranza di Nuovo Psi e Casini, dal 24 aprile 2005 al 17 maggio 2006.

A fine legislatura le elezioni del 2006 premiarono solo di un soffio il favoritissimo Romano Prodi. Lo scarto tra i due schieramenti fu di 24 mila voti appena, grazie alla campagna aggressiva e suadente di Berlusconi: catturare le simpatie era una delle cose che gli riusciva meglio e pure in quella occasione procurò un recupero prodigioso: chi ha dimenticato la mossa di pulire la sedia dalla quale si era appena alzato Travaglio? Il centrosinistra si reggeva con una maggioranza davvero eterogenea, da Mastella a Turigliatto, la capacità di azione era molto limitato, infatti due anni dopo il Professore getto la spugna e il nuovo capo dello Stato, Giorgio Napolitano, indisse elezioni anticipate. Terza vittoria del Cavaliere, quarto governo. Tre anni travagliati, in cui Berlusconi dovette affrontare gli effetti della crisi della Lehman, il terremoto all’Aquila, l’emergenza immigrazione, qualche screzio con Bruxelles.

Ma il fondatore di Forza Italia non ha mai abbandonato la linea europeista, nemmeno dopo le risatine di Merkel e Sarkozy e gli attacchi ai titoli di Stato che portarono lo spread sopra quota 500. Fini intanto era passato all’opposizione. Nel 2011 l’ultimo atto, con i suoi che gli chiedevano di resistere e lui che invece decise di lasciare strada a Monti «per non mettere a rischio il Paese».

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