Tre italiani dettano la linea a Parigi

Tre italiani dettano la linea a Parigi

Parigi«Il futuro non è resuscitare grandi marchi ma crearne di nuovi. Altrimenti si pensa solo ai duty free» dice Giambattista Valli nel backstage della sua impeccabile sfilata dedicata alle bellezze urbane di New York, quelle tipe toste ed eleganti anche quando scendono a far correre il cane nel verde di Central Park. «Monsieur Hubert è vivo e lotta insieme a noi, personalmente mi limito a traghettare la sua griffe nel XXI secolo» sembra dire Riccardo Tisci con una collezione Givenchy semplicemente perfetta perché questo adorabile designer nato a Taranto e cresciuto sul lago di Como riesce a rendere contemporanea perfino l'idea della Walkiria su un immaginario cavallo alato.
Tra questi due giovani talenti dello stile dal crescente e più che meritato successo, si consuma il dramma di Stefano Pilati che ieri sera è uscito per l'ultima volta in passerella a Parigi come direttore creativo di Yves Saint Laurent. «Con questa collezione non ho cercato di celebrare né marcare un addio - dichiara in una nota scritta diffusa dalla maison - lo trovo inelegante. Sette anni fa mi è stato chiesto di risanare le sorti di un brand e l'ho fatto riguadagnando ampiamente perdite da capogiro anche con un turn over di quattro Ceo in breve tempo, con una crisi economica mondiale e con budget ridotti stagione dopo stagione. E' un'esperienza che mi ha dato molto permettendomi d'individuare cosa m'interessa e preannuncia il mio futuro». Poi l'educatissimo giovanotto che viene da una famiglia della buona borghesia milanese si concede il lusso di aggiungere una frase che la sua inconfondibile erre moscia potrebbe rendere un po' arrogante: «Per cambiare la moda il designer deve cambiare l'approccio con il quale marcare la sua visione ed è quello che farò, ovviamente se ne avrò voglia».
Inevitabile pensare che altri ce l'hanno fatta e ce la stanno facendo in condizioni ben più difficili della sua. Prendiamo il caso di Valli che in otto anni è riuscito a costruire tutto da solo una maison con i conti in ordine e un meritato successo di critica e pubblico.
«I suoi vestiti hanno il potere di farti sentire più bella» diceva ieri nel backstage Bianca Brandolini d'Adda. Lei sarebbe bellissima anche con un sacco di patate al posto del vestito, ma con i divini pantaloni a sigaretta sotto ai deliziosi paltò couture in grossa maglia bianca e nera, sarà uno schianto. La collezione è tutta così: urbana, portabile, fatta benissimo, con poche punte di colore (rosso da solo oppure accostato al ruggine nelle grafiche fantasie del Bauhaus) e un paio di sapienti tocchi in coccodrillo dorato.
Stessa scelta cromatica per i 22 deliziosi modelli della collezione Celine disegnata da Phoebe Philo all'ottavo mese di gravidanza. Invece Tisci punta sul tutto nero (nessuno lo sa fare bene come lui) e sul rosso fuoco per la più bella sfilata vista finora sulle passerelle di Parigi.
La pelle, lo stile equestre, le suggestioni anni Settanta delle foto di Guy Bourdin, nelle mani di questo grande visionario della moda tutto diventa poeticamente moderno.


Stella McCartney vince e convince con il suo barocco in salsa minimal: mai visto prima un broccato così interessante sui pantaloni di neoprene bianchi e dei cappotti tanto femminili anche se incrociati con il pullover da rugby di lui. L'ex Beatle inevitabilmente entusiasta del lavoro della figlia ha sorriso davanti al ragazzo che inalberava dietro le transenne una chitarra con la scritta: «Paul, questa suonerebbe meglio se tu la firmassi».

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