IRÈNE NÉMIROVSKY Il ballo interrotto

Una raffinata scrittrice di origine ebraica descrive grandezze e miserie della Parigi occupata dai tedeschi. Poi verrà deportata ad Auschwitz...

«Nascondi il naso!», raccomandava la nutrice alla bambina che, testimone della deportazione dei genitori, orfana in fuga con la sorellina nella Francia di Vichy, avrebbe inequivocabilmente tradito le sue origini mostrando il profilo ai nazisti che le davano la caccia. Così, abbracciata a Madame Michaud, affondata la faccia in una sciarpa, proteggeva il segreto di un’identità ebraica che poteva costarle la vita. A costo della vita stava difendendo anche un altro segreto la piccola Dénise che, con l’istintivo amor filiale di una tredicenne, infallibile quanto l’amoroso, stringeva tra le braccia l’ultimo manoscritto della madre: fitto di scrittura minuta, rilegato in cuoio scuro, chiuso dentro un baule con le quattro cose raccolte prima di scappare e serrato in un mistero insondabile anche per lei che fino alla Liberazione lo portò con sé di nascondiglio in nascondiglio e per anni non riuscì a vincere il dolore di aprirlo e di leggerlo.
Per 62 anni poi, dopo che, adulta, l’ebbe decifrato e trascritto in bella copia, la sopravvissuta (viva: ha 75 anni, abita a Tolosa) ha tenuto nascosto, con la complicità della sorella minore Elisabeth (morta di cancro nel ’96) quel tesoro autentico e dirompente quanto la curva del suo naso: i 62 anni trascorsi fino alla prima edizione mondiale della Suite Francese - uscita l’anno scorso a Parigi da Denoël, tradotta in italiano da Laura Frausin Guarino e ora in libreria per Adelphi (pagg. 416, 19 euro) -, dal 1942 anno della morte dell’autrice.
Fu uccisa a 39 anni ad Auschwitz l’ebrea ucraina che, al contrario delle figliole, non aveva fatto mistero di identità e provenienza. E, in tempi di persecuzioni e di guerra, aveva firmato le sue opere con il nome beffardo della pace - Irène - e il cognome ebraico della famiglia - Némirovsky - originaria della città di Nemirov, nel cuore dello Yiddishland russo pulsante di antica tradizione chassidica. Figurarsi se si era preoccupata di nascondere il naso. Lo aveva anzi messo spietatamente in luce: sul volto di quel David Golder che, protagonista del suo romanzo d’esordio (1929), assommava nella fisionomia fin troppo familiare di banchiere ucraino (come il padre della scrittrice), e di ebreo riccastro (come i Némirovsky) i tratti più tipici e famigerati del ceto e della razza cui lei stessa apparteneva. Con quel debutto la scrittrice, allora 26enne, aveva dato una prova d’autore adulto e disincantato, incantando Bernard Grasset - l’editore «collabo» - che senza esitare le pubblicò il testo, e Robert Brasillach - il poeta monarchico e giudeofobo -, oltre a Cocteau, Kessel e Morand: tutti pronti ad accoglierla nell’orbita delle lettres parisiennes. Neanche l’ingresso da artista incoronata nell’empireo letterario della capitale (nel 1930 seguirà il racconto Il ballo) valse un approdo sicuro a colei che, ebrea antisemita, borghese très chic cinicamente disillusa sulla vacuità del bel mondo, pagò a caro prezzo tanto il rifiuto quanto l’appartenenza al popolo eletto e alla classe privilegiata. L’esilio e l’esclusione, la cacciata e la deportazione le furono, per tutta la vita e fino alla morte, fatali. Fuggì con i genitori dalla Russia nativa. Scampò ai Soviet che volevano la testa di suo padre. Riparò in Finlandia poi in Svezia poi in Francia. Crebbe straniera imparando una lingua straniera - prescelta come lingua dell’arte - dalla balia francese supplente di una madre indifferente e vanesia. Anche dalla religione di famiglia si emancipò: convertendosi al cattolicesimo abbracciato alla vigilia delle nozze con Michel Epstein.
Battezzata, sposata a un francese, applaudita dai lettori di Francia, quando la Francia fu invasa dai tedeschi non poté rinnegare la propria stella: e dovette vistosamente cucirla sulla giacchetta delle sue bambine. Con l’estate fatale del 1940, nel giro di due anni, gli eventi precipitarono per lei: divieto di pubblicazione, arresto, deportazione, esecuzione nel Lager si susseguirono a ritmo incalzante (documentato dall’epistolario in appendice al volume) fino alla catastrofe. A un altro ritmo, con passo diverso - un passo di danza - intanto, Irene aveva però già preso lo slancio per spiccare il salto del riscatto. Intonava proprio nel giugno francese del ’40 la Suite che, seppure interrotta dalla sua vita spezzata, vibra adesso, fin dall’ouverture di suoni travolgenti.
Voleva scrivere un migliaio di pagine l’esule braccata, e consegnare ai posteri, presaga della prossima fine, il Guerra e pace del nuovo secolo. Si leggono senza rimpianti - senza il disagio dell’incompiutezza - le oltre quattrocento pagine che è riuscita a ultimare. Già il pianissimo della sinfonia d’apertura suggerisce sottovoce temi e figure sviluppati nell’architettura dell’intera opera. La fuga in sordina della coppia che si incammina a piedi da Parigi sperando di imbattersi nel figlio soldato, e la cavalcata in crescendo dei giovani che, «la carnagione rosea, i capelli d’oro», su groppe lucenti, suscitano «una luminosità, un’animazione nuova» più che il timore «d’un nemico assetato di sangue». Il balletto della contadina scandito dal batticuore per un ufficiale avversario, e il minuetto della cocotte ritmato dai calcoli esatti con cui si sceglie i suoi amanti. La ridda dei pensieri che attraversano la mente di un ferito e l’aerea giravolta di un gatto intento alla caccia notturna di femmine e prede nel preludio all’esplosione di una polveriera. Via via che aumenta la concitazione della musica, lo spettacolo si fa cupo e grave: non tanto per il crescere dei rimbombi di guerra fino alla catastrofe, quanto per il vorticare della girandola dei personaggi grotteschi, trascinati più che da una danza di morte, da note - acutissime - sulle umane bassezze messe a nudo sui loro volti. Crollando sotto i colpi della Germania - e sotto quelli assestati da colei che, con armi affilate, scolpisce il loro profilo - le maschere danzanti tra le file della Suite lasciano cadere ogni travestimento. Svelando egoismo, avidità, indifferenza, odio, freddezza, vanità, inerzia: vizi più abietti e meschini dell’abominio dei carnefici. Ecco lo scrittore geloso della firma sui propri manoscritti reso vorace ed efferato dalla più vile delle brame: la fame del ventre. Il gentiluomo erudito pigramente attaccato alle vecchie abitudini - poltrona e pantofole - goffamente aggrappato agli averi - porcellane e suppellettili -: con una tenacia forte più della paura. La pia, caritatevole mater familias che, esaurita la scorta dei biscotti, dimentica ogni cristiana virtù «rivelando un’anima arida e nuda».
Al centro del tetro carnevale, la Némirovsky osserva e racconta: audace e brillantissima, smagliante e crudelissima, lucida e gelida di una freddezza che non spegne i brividi dell’emozione.

Conduttrice e coreografa, assiste alla scena con il partecipe distacco di chi, un gradino più in alto, mantiene una distanza sulla lunghezza della bacchetta - la matita - che stringe nella mano per non farsene coinvolgere, salvo esserne travolta nel finale. Era la sua misura, il suo tactus: il passo - di danza - con cui si era lanciata nell’avventura della sua vita.

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