«Islam e democrazia possono essere compatibili»

«Islam e democrazia? Sono compatibili». Parola di Farah Pandith, che è donna, musulmana ed è uno dei grandi esperti in materia dell’Amministrazione Bush, dal 2004 al 2007 al Consiglio della Sicurezza nazionale, ora come assistente segretario di Stato. La Pandith è in missione in cinque Paesi europei, tra cui l’Italia. Ieri era al Consolato di Milano, dove ha concesso questa intervista al Giornale.
Il suo ottimismo sembra in controtendenza in un mondo dove si parla sempre più di scontro di civiltà...
«Mi limito a osservare la realtà. Le tensioni e le violenze dei gruppi radicali fanno notizia, ma ci scordiamo che milioni di musulmani si sono integrati in Occidente e anche escludendo America ed Europa, l’esperienza dell’India, dove vivono 150 milioni di islamici, dimostra come sia falso il luogo comune sull’incompatibilità tra la democrazia e la religione di Maometto».
In Europa però l’integrazione dei musulmani è sovente problematica...
«Certo, ed è comprensibile considerato che molti Paesi europei si sono confrontati con un problema a cui non erano preparati. Ma bisogna evitare le generalizzazioni. Certo è più difficile integrare chi arriva qui da adulto, però tra i più giovani vedo segnali incoraggianti che pongono la questione in una nuova prospettiva».
Quale?
«In Germania, in Spagna, in Italia incontro molti giovani musulmani che non hanno la nostalgia dei Paesi d’origine, perché lì non hanno mai vissuto. Non pensano a tornare a casa, perché la loro casa è qui ed è in Europa che vogliono costruire il proprio avvenire».
Questo però non risolve il problema dell’integrazione...
«Dimostra però che il punto cruciale non è l’Islam, ma l’identità. Questi giovani chiedono di essere messi nelle condizioni di conciliare la propria appartenenza a una società moderna con il rispetto delle proprie tradizioni e della propria fede».
Ed è possibile?
«In America ci siamo riusciti, certo commettendo a nostra volta errori e sormontando molte difficoltà. Ma oggi i musulmani sono perfettamente integrati e sono i più liberi al mondo. Possono aprire moschee, scuole, il velo non è un problema; non ci sono tensioni tra sciiti e sunniti, né tra differenti comunità nonostante gli immigrati islamici provengano da ben ottanta Paesi. Però tutti si sentono innanzitutto americani e poi musulmani».
Perché gli imam fondamentalisti sembrano avere poco seguito negli Usa?
«Proprio perché c’è un’identità nazionale e i valori sono condivisi. Sono i leader delle comunità musulmane i primi ad allontanare i predicatori fondamentalisti».
In Europa però non è altrettanto semplice. Come mai?
«Verosimilmente perché gli imam oltranzisti provengono da Paesi musulmani e sovente predicano in arabo anziché nella lingua locale. Mi ha molto colpito il fatto che in tutta Europa sia sempre più frequente la richiesta di rendere obbligatorio l’apprendimento dell’idioma del posto e dunque anche l’uso dello stesso nelle prediche nelle moschee».
In Medio Oriente l’America non è mai stata così impopolare.

Cosa state facendo per migliorare la vostra immagine?
«Sono in corso molti programmi a diversi livelli; notiamo con piacere che sono gli stessi musulmani d’America a prodigarsi per smontare l’idea, assai diffusa in Africa e in Asia, secondo cui gli Usa sarebbero in guerra con l’Islam. Molti di loro accettano di recarsi all’estero per dialogare con le comunità musulmane, ottenendo ottimi risultati: grazie a loro emerge un altro volto degli Usa».

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