Israele, a Netanyahu l’incarico La Livni: «Nessun governo con lui»

Il mandato ce l’ha in tasca, il governo ancora no. E non sarà facile metterlo in piedi. Dopo aver sudato sette camicie e aver ottenuto ieri l’investitura dal presidente Shimon Peres il leader del Likud Benyamin Netanyahu deve ora far quadrare numeri e politica. In quella complessa equazione sono rinchiuse tutte le incognite della legislatura e del suo incarico di premier designato. Bibi s’è guadagnato la nomina grazie all’investitura assicuratagli dal leader di Yisrael Beitenu, Avigdor Lieberman, politico rivelazione delle ultime legislative, e dai partiti religiosi ortodossi e ultraortodossi. E subito ha mostrato il suo piglio decisionista, annunciando di voler affrontare «l’Iran, prima minaccia» per Israele. Ma i 65 voti garantitigli alla Knesset da quei grandi elettori inclinati a destra rischiano di trasformarsi in una maledizione. Per capirlo basta riascoltare le risse verbali dell’ultima campagna elettorale quando Ovadia Yosef, capo dei rabbini ultraortodossi dello Shas, definì Lieberman la reincarnazione di Satana per le sue pretese di introdurre il matrimonio civile. Quello scontro, amplificato dalla rissosità del capo di Yisrael Beitenu rischia di trasformare un’eventuale coalizione di governo in una letale bomba a tempo.
Dunque il nuovo ago della bilancia di una trattativa da chiudere entro sei settimane sarà la rediviva Tzipi Livni. La vincitrice mancata ripeteva ieri di non aver nessuna intenzione di far da foglia di fico ad una coalizione fragile, litigiosa e così refrattaria a nuovi negoziati di pace da rischiare la collisione con l’America di Barak Obama. «Non sarò io a far da coperta... – ha detto la Livni - io intendo guidare Israele nella maniera in cui credo per rilanciare un processo basato su due Stati per due popoli». L’altera Tzipi sa però di essere la più indispensabile del reame. Ed è pronta a vendersi a caro prezzo. Anche perché subito dopo l’investitura Netanyahu non ha saputo far di meglio che proporre a lei e ai laburisti di Ehud Barak la formazione di un governo di unità nazionale. «Vi chiedo d’incontrarvi per primi per discutere - ha detto Bibi - un ampio governo d’unità nazionale capace di garantire il bene della cittadinanza e dello Stato».
Il vertice è già fissato per domani, ma l’eventuale accordo non verrà via a poco. Per conquistarsi la legittimità internazionale garantitagli da Kadima Bibi dovrà rinunciare ai voti di Lieberman, rimangiarsi molte promesse elettorali, aprire a nuovi negoziati di pace e garantire all’esosa Tzipi preziosi e pesanti dicasteri. Il mandato conferitogli da Peres rischia insomma di trasformare il capo del Likud in un ostaggio dei suoi potenziali alleati. I primi a cercar di avvantaggiarsene sono i palestinesi, prontissimi - da Hamas a Fatah - a mettere in discussione la patente democratica del futuro esecutivo.

«Non tratteremo con il governo israeliano se non accetterà una soluzione basata sul concetto di due Stati, non bloccherà gli insediamenti e non rispetterà gli accordi pregressi» – annunciano da Ramallah i portavoce del presidente Mahmoud Abbas. E la seconda spiccia lezione di democrazia arriva da quelli di Hamas che definiscono Netanyahu un «premier estremista e pericoloso» e liquidano lui e la Livni come «terroristi ostili al popolo palestinese».

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