JACQUES YONNET Parigi arcana

Oggi il congresso della società «Dante Alighieri» per la valorizzazione della nostra lingua in tutti i settori della cultura

Rue des Maléfices è il titolo francese della quasi unica opera di Jacques Yonnet, nato nel 1915 e di cui poco sappiamo: combattente per la resistenza a Parigi, dopo un periodo come prigioniero di guerra, scrive questa sorta di diario, pubblicato la prima volta nel 1954 con l’approvazione di Raymond Queneau, che lo considerava il più grande libro mai scritto sulla capitale francese (un capitolo è dedicato al loro vagabondaggio insieme per bettole e locali più o meno malfamati), che è anche uno stupefacente florilegio di storie, leggende del passato e del presente, galleria di personaggi e di situazioni, nella “sua” Parigi, amata come una bella donna, della quale si avvertono umori e malumori, si corteggia perché sveli i suoi segreti: «La città è femmina, con i suoi desideri e le sue repulsioni, slanci e rinunce, e pudori, soprattutto pudori. Per entrarle nel cuore, per coglierne i segreti più intimi, si deve agire con la massima tenerezza e armarsi di pazienza»; cito dall’attuale edizione italiana del volume, dal titolo meno bello di Le vie incantate di Parigi (FBE, pagg. 320, euro 13; a cura di Guido Lagomarsino; illustrato con fotografie di Robert Doisneau e disegni dell’autore).
Siamo negli anni della guerra; in perenne fuga per i motivi cui si è accennato, Yonnet entra in contatto con una Parigi misteriosa, un mondo parallelo a quello risaputo e di una grande potenza: immaginativa, simbolica. Uomo di una certa erudizione e di ottime letture, tra le quali famosi repertori ottocenteschi (ad esempio Paris anecdote di Privat d’Anglemont), e di lingua antica e moderna al contempo, l’argot quasi perduto dei bassifondi fin de siècle e il classico dettato dei narratori colti, come in ogni descensio ad inferum che si rispetti Jacques ha le sue guide: e sono lo Zingaro, o Fattimiei, o molti altri che di volta in volta lo accompagnano per un breve tratto. Il quartiere in particolare perlustrato è quello animatissimo della Mouffe, sulla rive gauche (correttamente rue Mouffetard). Sfilano nel libro personaggi mitici nella Parigi degli anni Cinquanta, Cyril, il mastro orologiaio che si dice conosca il modo per fermare il tempo («Le lancette ruotano alternativamente a destra e a sinistra: io invecchio e ringiovanisco un giorno sì e uno no»), Minna la Chatte e Renard Goupil, con le loro vicende di animali salvati e poi uccisi da Renard, forse incarnazione di una volpe malvagia; e il Dormeur du Pont-au-Double, un vecchio paralizzato che cura gli altrui malanni «dormendoci sopra», cioè pensando intensamente, durante il sonno, alla guarigione del paziente (esito garantito e sperimentato dallo stesso narratore); o il Vecchio del dopo Mezzanotte, che compare nelle taverne chissà da dove venuto, pronuncia una frase risolutrice o perlomeno illuminante, e poi svanisce nel nulla. Una volta Yonnet, che era anche pittore, volle ritrarlo, e lui benevolmente lo lasciò fare; ma al mattino, riprendendo in mano il disegno, lo trovò del tutto sbiadito.
Una corte dei miracoli degna di una cronaca medioevale è ancora perfettamente attiva in precisi punti della città, là dove più che altrove la nozione di tempo sembra insensata. Il libro si configura insomma come un’«iniziazione alle misteriose correnti che fanno palpitare la città nelle sue vene più segrete»; correnti che poi, come dimostra Yonnet, passano sempre nei medesimi luoghi, dai secoli dei secoli. E in essi e per essi le leggende si stratificano, nelle vecchie locande frequentate dal «fior fiore della Mouffe al gran completo», il Vieux Chêne, Les Quatre Fesses (tenuto da due attempate signorine, quattro fesses, o chiappe, appunto), Aux Trois Mailletz.
Si passa dalla Guerra dei Cento Anni alla Parigi del Grand Siècle, a quella cruenta del conflitto mondiale: né Yonnet manca mai di richiamarsi al presente, e di straziante bellezza sono le sue descrizioni della città occupata, stuprata, in un’epoca in cui le persone più sensibili sono costrette ad atti scellerati (tra l’altro ci descrive per filo e per segno, con una calma prosa, come uccise un informatore della Gestapo, lo tagliò a pezzi poi dispersi in vari punti della città: «La testa decollata, pensosa, con un occhio socchiuso, mi osservava mentre mi occupavo del resto. L’avevo messa su un piatto di rame comprato a Bicètre. Il tronco, che gonfia un po’ la valigia, è al deposito bagagli di Montparnasse. Il bacino e le gambe sono ad Austerlitz»).
L’assunto è che esista, nel bene e nel male, una geografia dell’arcano nei secoli immutabile, un «destino» dei luoghi; e che gli oggetti (la magia degli oggetti!) si tramandino, con una loro reale vitalità, attraverso i disastri e le rivoluzioni, come un’insegna ricavata dal legno di un relitto di nave: il quale, si sa, ha il potere del «ritorno di fiamma», ovvero «niente di ciò che accade sotto il segno del legno di un relitto, anche se è un pezzetto piccolissimo, va in un senso solo». Veri fantasmi o persone già morte in vita affollano queste pagine; in un’unica apparizione o riprese più volte nel corso del racconto, creature sconfitte eppure dotate di una loro invincibile forza.

La leggenda dell’Homme qui Chante, che per un periodo diede il nome alla via dei Malefici (fu anche via dei Tre Candelieri, forse in ricordo di antichi esorcismi) resterà impressa: e magistrale la penna di chi descrive la sua lenta agonia, la graduale ripresa, ma al prezzo della cecità, dopo l’avvento di una notte che sorge dalle viscere della terra, una notte “rovesciata”. «È bello da impazzire che Parigi mi abbia in buona», esclama uno dei personaggi narratori, quasi alludendo a una divinità che è bene non irritare: constatazione che ci auguriamo di poter fare sempre, ora che sappiamo.

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