«Juve, il mio destino Le devo anche questi ottant’anni»

Compleanno speciale, domani, per l’uomo simbolo della Signora: «Ma se l’avessi tradita per il Toro, come voleva Mazzola, oggi non sarei qui»

«Sono tanti, ma sono anche pochi. Dentro mi sento il leone di sempre. E sa perché? Perché ho sempre una grande voglia di fare e di vivere. Come potrebbe essere diversamente con cinque nipoti? All’ultimo, Filippo di 16 anni, ho dedicato più attenzione che ai miei tre figli. È colpa sua se stamani non mi ha trovato in ufficio».
Dalla voce, squillante e autoritaria, sembra un ragazzino. «La voce del comando», dice lui con un pizzico di compiacimento. Lui è Giampiero Boniperti, prossimo al traguardo degli 80 anni, la grandissima parte dedicati alla Juventus di cui è l’icona alla faccia di chi ha cercato, senza riuscirci, di metterlo in un canto. Il riferimento alla passata gestione della società bianconera non è casuale. Un compleanno importante.
Ha seguito l’Europeo?
«Ma certo. Il calcio rimane uno dei miei interessi preferiti insieme con la politica. A Vienna ha vinto la squadra migliore con un centrocampo straordinario e un allenatore davvero intelligente. Vi raccomando in particolare quel brasiliano, Senna, che all’età in cui io lasciavo il calcio è stato il numero uno».
Se Aragonès a 70 anni conquista l’Europa, lei a 80 potrebbe tornare in gioco?
«Ma sono dieci anni importanti, che portano verso l’alto. E poi non bisogna mai tornare sui propri passi. Io non ho mai più rimesso le scarpe da calcio dopo averle regalate al magazziniere alla fine di quel Juventus-Inter che segnò il debutto di Sandro Mazzola».
A proposito di Mazzola. Se non ci fosse stata la tragedia di Superga chissà quanto avrebbe vinto la Nazionale, con Valentino a centrocampo e lei di punta...
«Accanto a lui avrei fatto la mia parte. Al secondo campionato in Serie A vinsi la classifica dei marcatori con 27 gol proprio davanti a lui. Ma il destino ha voluto altrimenti. Il destino ha voluto che io non fossi su quel volo».
Come sarebbe, si spieghi.
«Un giorno mi chiama Novo, il presidente del Grande Torino, e mi dice che Valentino lo ha invitato a prendermi. “Il nostro capitano mi ha rassicurato sul fatto che lei è un campione. E un campione può giocare solo nel Torino. Si troverà bene con noi, glielo assicuro”. Mi vennero i brividi. Ma io gli risposi: “Come faccio? Io sono della Juventus e alla Juventus rimango”. Quel giorno mi legai per sempre alla maglia bianconera e dribblai la morte che mi avrebbe colto a Superga se avessi accettato l’offerta di cambiare club. È la vita. Valentino se ne andò con tanti cari amici. Io sono qui a festeggiare 80 anni».
Nella sua carriera ha incontrato decine di calciatori, a chi è rimasto più affezionato?
«A quelli della prima ora. A Varglien, Locatelli, Rava, ma soprattutto a Parola che sul piano calcistico, e non solo, è stato come un fratello maggiore. Sono cresciuto sotto la sua ala, mi ha forgiato, del calcio ha saputo insegnarmi ogni segreto. A distanza di tanti anni sento ancora di dirgli, grazie Carletto».
E di quelli che ha avuto da presidente? Platini, forse?
«Ne ho trovati tanti di bravissimi come calciatori e come uomini. Non mi va di fare classifica. Mi limito solo a ricordare Trapattoni. Quante ore abbiamo trascorso insieme in sede a discutere di calcio, anche con forza, ma sempre con rispetto reciproco. A chi gli diceva che era bollito nel 2000, il Trap ha risposto vincendo scudetti in mezza Europa. Adesso è sulla panchina dell’Irlanda, in bocca al lupo».
Se le chiedo qual è la soddisfazione più grande che ha provato?
«Quella di essere il capocannoniere dei derby. Ho segnato 14 gol al Torino, 13 in campionato, uno in coppa Italia. Glielo dica al suo direttore, che stimo tantissimo anche se è granata».
Cosa pensa della nuova Juventus?
«Alla sua guida c’è ora gente che si dà molto da fare, gente perbene. Mi auguro che non sbaglino gli acquisti, che ci prendano questa volta. Se vogliamo puntare in alto, non dobbiamo sbagliare una mossa».
Quanto contano i soldi?
«Mi verrebbe voglia di dire come sempre, ma non è vero. Nel 1975, subito dopo la conquista del sedicesimo scudetto, mi dissero che la Juventus era più forte perché era più ricca. Ma non era vero. Negli ultimi quattro anni i miei azionisti non fecero nessun aumento di capitale. Adesso i bilanci sono più importanti».
Se lei fosse rimasto alla presidenza, con ogni probabilità la Juventus non avrebbe conosciuto l’onta di Calciopoli con la retrocessione in B e tutto il resto. Si sente di confermarlo?
«Non lo direi mai, lasci perdere, mi faccia la cortesia».
Boniperti glissa su questo tema, ma non ebbe mai in simpatia Giraudo e Moggi, come più volte fece capire con certi assordanti silenzi.

In una occasione, secondo il racconto di un grande vecchio della Fiat, rimproverò bonariamente l’Avvocato al quale era affezionatissimo («Gli devo tutto, lo piangerò per sempre») perché nel 1994 aveva «passato» la Juventus al fratello Umberto. A suo dire le scelte del Dottore non erano da Juventus. La storia gli sta dando ragione. Auguri, Giampiero.

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