Kamis e i 100 viaggi nella zona proibita: "Perché Chernobyl ha un fascino unico"

Orfano del padre, fisico nella centrale morto 13 anni dopo il disastro, si è innamorato dell'area «interdetta». «Sentivo l'urgenza di lasciare una testimonianza perché questo posto sta svanendo»

Kamis e i 100 viaggi nella zona proibita: "Perché Chernobyl ha un fascino unico"

Sembra strano, eppure le prime volte che sentiva pronunciare la parola Chernobyl, lo scrittore Markijan Kami la associava a qualcosa di positivo. In Ucraina era uno dei pochi a farlo. Ma era poco più che un bambino nato nel 1988, due anni dopo il collasso del reattore numero 4, e quel nome, Chernobyl, significava che papà era a casa. Quella parola faceva sempre capolino le volte in cui il padre passava le serate con i colleghi nel tinello, a discutere e bere vodka. Suo padre era fisico, faceva parte delle squadre di liquidatori: scienziati e operai che nei giorni, nei mesi e negli anni successivi all'incidente hanno lavorato prima per spegnere l'incendio, poi per bonificare l'area e costruire la bara di cemento armato che avrebbe dovuto e dovrebbe ancora isolare il reattore. Come tanti altri eroi del popolo ucraino, il padre è morto 13 anni dopo, nel 1999. Kami aveva 11 anni. Da allora dice di non aver pensato a Chernobyl, di non essersi più confrontato con il più grande disastro ambientale causato dall'uomo nel Novecento. Lui non era uno dei ragazzi di Chernobyl, la generazioni di bambini ucraini e bielorussi evacuati da un raggio di 50 chilometri dal reattore e destinati a un'infanzia di viaggi estivi in Europa per respirare aria buona e posti riservati all'università. Kami abitava a Kiev, oltre 150 chilometri dall'epicentro. Era solo un orfano.

Chernobyl, anzi, la Zona di esclusione è tornata nella sua vita solo dopo, una volta iscrittosi all'Università per studiare storia. Allora ha iniziato a frequentarla assiduamente. Prima un viaggio, poi un altro, poi un altro ancora: fino a collezionarne una trentina in un anno. Oltre cento in sette anni, fino al 2016. Alle volte giusto un paio di giorni, toccata e fuga; altre intere settimane. Tutti, sempre viaggi illegali. Zaino in spalla e sacco a pelo, come una giovane marmotta in campeggio in un campo nucleare, Kami prendeva una marrutka a Kiev e scendeva nei pressi della Zona, accanto al filo spinato. Filo che segna il confine della Zona d'esclusione che si estende per un raggio di 30 chilometri dal reattore, parte in Ucraina, parte nel sud della Bielorussia: oltre 2mila chilometri quadrati, grande quanto il Lussemburgo. Terra inquinata, abbandonata a forza, vigilata dalla polizia, frequentata per anni solo da scienziati e dal personale obbligato a farlo. Terra che ci si immagina bruciata dalle radiazioni, rasa al suolo dall'onda d'urto; se non fosse che le radiazioni non bruciano e l'onda d'urto non c'è stata. O meglio, è stata invisibile e non l'ha fermata un segno tracciato dall'uomo: di qui sì, di là no.

Un segno che comunque quelli come Markijan Kami attraversano senza paura. Tra di loro si chiamano stalker, in inglese, qualcosa traducibile come turisti illegali, anche se la parola turisti a Kami non piace, la usa per farsi capire. Meglio esploratori, maniaci, o forse cercatori. Cercatori di cosa? «Della pace, del silenzio assoluto che trovo lenitivo, dei cieli stellati come non si vedono altrove, di una natura sovrabbondante» spiega. Ma che cosa è la Zona? «Il luogo più esotico del mondo, ormai», dice non senza ironia. Perché questo andare di continuo in una specie di pellegrinaggio, è ironicamente un modo come un altro di appropriarsi di un pezzo di storia del proprio Paese e della propria vita. «Meno male che c'è Chernobyl a ricordare al mondo che esistiamo», scherza. Ma la Zona è una cosa seria, talmente seria da scriverci un libro, Passeggiate nella Zona che ha avuto un discreto successo di critica in Ucraina ed è stato tradotto in francese e ora in italiano. Un libro in cui descrivere la sua vera malattia: andare dove non si poteva andare. «L'ho fatto perché forse sentivo l'urgenza artistica di lasciare una testimonianza di questa storia prima che tutto questo vada in rovina e diventi ancor di più una giungla, perché questo posto sta svanendo», spiega. Lo ha fatto sfidando il freddo intenso e la neve a mucchi, in inverno; i moscerini, le paludi di fango, in estate. E sfidando la polizia, perché nella Zona si può entrare solo con un permesso che lui non ha mai avuto, non prima di diventare uno scrittore affermato. Permesso che viene concesso solo ai ricercatori, agli addetti ai lavori, ai turisti e alle persone che prima del 26 aprile 1986 vivevano nei dintorni, anche se hanno diritto solo un giorno l'anno, per far visita ai cimiteri.

Oltre a questi «legali» c'è tutta una popolazione illegale che cannibalizza la Zona e vive alla sue spalle: ci sono contrabbandieri di legname da rivendere in Occidente, cacciatori e pescatori di frodo, qualche drogato e i «metallisti», i peggiori di tutti. Con l'assenso della polizia, che chiude ben più di un occhio, saccheggiano metalli radioattivi dalle costruzioni per rivenderli. Invece con quel centinaio di «turisti illegali» non è mai tenera. Li cerca con ronde notturne, li insegue nei boschi, li stana, li ferma, li trattiene in arresto per qualche ora. Poi li libera, scaricandoli alla prima fermata dall'autobus oltre il filo spinato. Kami è stato fermato dozzine di volte. Ma come si fa a guardie e ladri ha continuato a riandarci. Oltre ai poliziotti nella Zona vivono un centinaio di persone, soprattutto anziani tornati a vivere, e morire, nella loro casa natale. Ma loro cerca di non incontrarli, per rispetto. Cerca di andare altrove. «Ci vogliono due giorni di cammino, tre in inverno, per arrivare a piedi dalle barriere di filo spinato che costituisco il confine della zona di esclusione lungo la statale che viene da Kiev fino al centro, alla cittadina di Pripyat, la più vicina al reattore, quella che tutti hanno visto nella serie Tv». Pripyat non è la sua parte preferita della Zona, anche se racconta di averci perfino celebrato un paio di Capodanni. Preferisce zone più remote, «quelle dove ho la sensazione che nessuno ci abbia più messo piede da quel giorno». Villaggi verso il confine bielorusso, dove i libri sono rimasti sul tavolo, le bottiglie di vodka in dispensa, i vestiti nell'armadio, le foto alle pareti, i calendari dicono 1986. Villaggi dove la vita si è volatilizzata.

Ma non teme le radiazioni? «Se non c'è un dosimetro non ci sono radiazioni», dice a un certo punto nel suo racconto. Non più che a Kiev, almeno. Anche se certo, è consapevole del rischio corso ad andare e venire per sette anni dalla Zona. «È stato abbastanza stupido continuare ad andarci, lo so. Ma non potevo farne a meno, era una attrazione inspiegabile, illogica come tutte le attrazioni». La sua Zona è qualcosa più simile a Trainspotting che alla ricerca di scenari postapocalittici. Quelli come lui, gli stalkers, riportano alla vita un luogo defunto; lo fanno in modo strano, irregolare e fuorilegge, alla ricerca di un senso di libertà assoluta. Con la consapevolezza, forse malsana, di certo non ordinaria, di aver attraversato una foresta densa e fitta non percorsa dall'uomo per decenni.

La stessa che devono avere i branchi di lupi e gli sparuti orsi, cinghiali e rare, aggressive, linci, gufi e pesci siluro che negli anni hanno ripopolato quello che avrebbe dovuto esser morto per sempre. Perché la vita è strana: la natura si prende la rivincita, ferita eppure indomita.

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