Kezich, racconti «girati» due volte

Torna «L’uomo di sfiducia», la raccolta di novelle del critico triestino sulla «fabbrica dei sogni» (erano i primi anni Sessanta...) di casa nostra

«L’uomo di sfiducia» viene da uno di quei calembour che nei primi anni Sessanta si divertivano a coniare Age&Scarpelli, gran sceneggiatori della commedia italiana. Per sfotticchiare il leggendario organizzatore della Vides, Pietro Notarianni, felliniano con l’Unità sempre in tasca, nacquero etichette come «Il braccio maldestro», «Il cavaliere serpente» e appunto «L’uomo di sfiducia». Che al giovane Tullio Kezich, in quel giugno ’62, parve titolo perfetto per battezzare la sua prima e unica raccolta di racconti. All’editore, Valentino Bompiani, che ne aveva letti due su La fiera del cinema, erano piaciuti così tanto da consigliare a Kezich di scriverne uno più lungo, per fare da traino al libretto. Il critico triestino gli portò una sessantina di pagine dattiloscritte, intitolate Il primo film, ma nel momento di andare in stampa rispuntò fuori L’uomo di sfiducia, che ebbe la meglio.
Quarantatré anni dopo, in una versione arricchita da una sesta novella inedita e da una gustosa postfazione («Contributo alla critica di me stesso»), il libro è stato ripubblicato da Bompiani (pagg. 170, euro 7). Come «referto appena romanzato» sull’ambiente del cinema italiano nei primi anni Sessanta, L’uomo di sfiducia è un piccolo capolavoro: per come intesse memorie e altarini, ambienti e amorazzi. Forse non fu un caso che, all’epoca, in molti si risentirono, rispecchiandosi in qualche personaggio. Ci fu anche chi si dispiacque del contrario. Il citato Notarianni, convinto che si parlasse di lui, lesse d’un fiato il volumetto, restando deluso; a ragione, poiché l’uomo indicato dal titolo, ma non citato per nome, era un famoso press-agent, l’ancora attivo Carlo Alberto Balestrazzi. Fu lui, nel ’61, a organizzare a Milano l’anteprima del primo film di Elio Petri, L’assassino: una giornata strana, anche buffa, che Kezich restituì aggiungendo e sottraendo dettagli, all’insegna di un ritratto divagatorio, di affettuosa simpatia. Petri, ribattezzato Gino Alessandri, non gradì, e come lui altri, registi e attori, evocati da quelle pagine.
«Ebbi l’impressione, stando in mezzo ai cinematografari, che molti mi considerassero un infiltrato, un traditore della tribù», confessa oggi l’autore. Il quale, considerato il tempo passato, lo sbiadire delle memorie e la morte di tanta di quella gente, si sente legittimato ad autenticare qualche riferimento. Ma neanche troppo. E così come non riconoscere nel divo popolare - in Ferrari ma inseguito dai «cravattari» - alcuni tratti di Maurizio Arena o Renato Salvatori? O nel regista sempre all’estero, dalla casa sontuosa e dall’omosessualità «velata», l’immenso Romolo Valli? O nel fotografo dell’ultimo racconto, il più bello per malinconia e lessico, il milanesone Alberto Soffientini? State a sentire: «Così sto dietro a battone, squillo, indossatrici e attricette, tutto fa brodo.

Al Giamaica mi vanto con gli amici, ho i miei giri, esibisco volentieri un calepino con decine di numeri. Certo esagero un po’, mi allargo. Ogni tanto riesco a battere qualche chiodo, ma non mi affeziono e le ragazze figuriamoci». Non c’è tutto un mondo meneghino dentro?

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