L’analisi Meglio una scelta difficile che le sovvenzioni

di Nicola Porro

Il gruppo multinazionale francese L’Oréal ha deciso di mantenere e rendere strategica la sua produzione di cosmetici realizzata a Settimo torinese. A pochi chilometri di distanza la Indesit ha invece scelto di chiudere il suo stabilimento di None per spostare parte della sua produzione in Polonia. E ancora. La Renault, per bocca del ministro dell’Industria francese, ha ieri annunciato «il rimpatrio della produzione di un veicolo finora realizzato fuori dalla Francia» in Slovenia. Il primo caso racconta una storia di un’industria che ha saputo ristrutturarsi, che soffre meno di altre la crisi, e che produce dove le è più conveniente. Anche per la Indesit il principio non cambia: cerca di produrre dove le è più efficiente secondo criteri puramente di mercato. Ma a differenza della cosmetica si trova in un settore che oggi soffre da impazzire e deve, come può, ricorrere ai ripari.
Diverso il caso Renault. Lo Stato francese ha dato alle sue due grandi case automobilistiche 6 miliardi di aiuti. In una di queste, Renault appunto, è financo azionista. I quattrini, per un tacito accordo che per motivi di concorrenza europei resterà tale, si stanno dimostrando finalizzati al riportare in patria produzioni altrimenti delocalizzate.
Qual è il modello che dobbiamo perseguire? Non si può certo riconvertire l’Italia solo a produzioni oggi fuori dalla crisi con la bacchetta magica. Nel frattempo la cassa integrazione vola, le famiglie perdono reddito e consumano di meno, e il disagio sociale rischia di crescere. Apparentemente il modello Renault ha quindi una grande attrattiva. Un escamotage per tenere in piedi l’industria: una barriera alla concorrenza di paesi a più basso costo dei fattori produttivi: dall’energia al lavoro. Ma sarebbe una scelta miope, incredibilmente sbagliata. Il modello francese che funziona è quello di L’Oréal e non già quello di Renault. È difficile non solidarizzare con 650 famiglie che perdono il lavoro in Indesit. Ma forse converrebbe ricordare (nonostante la signora Merloni, proprietaria della Indesit ed eletta nel Pd, potrebbe vestire un abito meno politicamente corretto e assumersi qualche responsabilità in più) che l’Indesit fattura in Italia solo il 15 per cento del totale, mentre continua a produrre da noi ancora il 45 per cento del suo fatturato.
Insomma senza ipocrisie un imprenditore made in Indesit potrebbe avere il coraggio di dire che i licenziamenti di Torino servono per tenere in piedi gli altri sette stabilimenti e i loro 5mila dipendenti italiani. Potrebbe affermare con orgoglio che il gruppo è un esportatore netto di prodotti per la gran parte made in Italy. Ma questo è un altro discorso. Il tema principale resta quello appunto di guardare un po’ avanti. Oggi sono necessarie le massime tutele per le famiglie che perdono il proprio reddito. Massime. Ma domani, il prima possibile, è necessario pensare a come mantenere competitiva la propria industria. E ciò non può avvenire alzando le barriere e riportando in Italia produzioni a basso valore aggiunto. I francesi della Renault hanno creato 400 posti di lavoro oggi con i sei miliardi dei contribuenti.

Ma domani rischiano la caduta di Wil il coyote: quello che fa due passi nell’aria e poi precipita. Il primo drogando l’industria delle auto. Il secondo chiedendo i soldi della droga ai contribuenti.
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