L’appello Caro Indro, così deludi i tuoi lettori

Caro Indro,
sabato scorso, intervistato come di consueto da Alain Elkann su Telemontecarlo, hai detto che il 13 maggio darai il tuo voto al centrosinistra cui accrediti, negli anni in cui ha governato, risultati positivi: aggiungendo che «io sono un uomo di destra, ma mica di questa destra qua». Ti sei inoltre scagliato contro i «piazzisti» che inondano il video e gli altri mezzi di comunicazione.
Non ti scrivo per polemizzare, l’affetto me lo impedirebbe: ti scrivo per farmi interprete della profonda amarezza suscitata dalle tue parole in tanti che ti hanno voluto e ti vogliono bene, incluso per quel pochissimo che conta me stesso, e incluso, non scandalizzarti, il maggior bersaglio delle tue attuali accuse, Silvio Berlusconi. A questa amarezza fa riscontro l’esultanza maligna di chi ti ha sempre voluto male, e che d’improvviso si scopre montanelliano fervente e convinto. Questi tuoi denigratori, che una subitanea folgorazione ha convertito in estimatori, riecheggiano, con la loro supponenza salottiera e i loro ghignetti furbi, la tua distinzione tra la destra «buona» e la destra «cattiva». Buona la destra che rappresenti, perché colta, nobile, risorgimentale, illuminata, aperta: cattiva invece l’altra - quella berlusconiana che è rozza, becera, un po’ razzista. E se proprio vogliamo sintetizzare fascista o fascistoide.
Questo mi disgusta e dovrebbe disgustare anche te. Perché quando il Giornale nacque e mosse i primi tormentati passi, quando due fanatici scriteriati ti gambizzarono, quando il portare il Giornale nella Statale di Milano era una provocazione seguita da pestaggi, quando chi da lunga data frequentavi fingeva di non conoscerti nemmeno, la destra becera, rozza, nostalgica eri tu. Contro di te veniva scagliato con acre voluttà, dai tuoi tifosi d’oggi, l’epiteto squalificante di fascista.
Se per caso tu presti fede alla genuinità dei battimani che adesso ti assordano, io t’avverto invece che sanno di ipocrisia e di falsità lontano un miglio. Fingono di amarti perché odiano il Cavaliere, e ti usano come un alibi autorevole e prestigioso per motivi di propaganda. Una propaganda che confina gli elettori del Polo - più della metà degli italiani se i sondaggi hanno ragione - in un ambito subumano, in un’area oscurantista dove la luce dei grandi principi non penetra. In quell’ambito subumano pretendevano un tempo di relegare anche te. Non s’erano accorti, allora, di quanto fossi aristocratico e alto - non solo fisicamente - nelle tue prese di posizione. Eri l’«altro», il nemico da distruggere. Ma davvero vogliamo prestare anche un briciolo di attendibilità agli abbracci di sinistra e alle moine di masse progressiste dai quali sei soffocato?
Mentre venivi sottoposto a un linciaggio morale il cui accanimento sconfinava nel fanatismo e nel razzismo, tanti italiani, lettori del Giornale e no, ti nominarono loro paladino senza macchia e senza paura. Molti di loro non li hai persi, li hai soltanto addolorati. Dopo i tuoi pronunciamenti si riversano sul giornale che hai fondato lettere e telefonate. Alcune sono violente e insultanti, non ne tengo conto. Ma altre - numerose - sono tristi o addirittura angosciate. Sono l’espressione di un attaccamento che dura, di un rispetto che non si è incrinato, ma anche di un immenso sconforto.
Credi a me, Indro. Se domani tu tornassi sui tuoi passi, coloro che oggi a sinistra si professano tuoi sostenitori ti si rivolterebbero contro, malevoli e sarcastici. E invece troveresti al tuo fianco i fedeli che ripetono con orgoglio «ho letto il Giornale fin dal primo numero» e che comprano i nostri libri perché nel Montanelli storico ritrovano i fondamentali dell’ideologia montanelliana. Che a loro non parve né becera, né rozza, né fascistoide.
Avrei capito di più, Indro, se tu ti fossi astenuto. Ammetto che lo spettacolo di questa campagna elettorale non è esaltante. Troppe invettive, troppo clamore, troppo affidamento alla televisione sul cui effetto confida certo Berlusconi, ma ancor più - mi pare - confida Rutelli, scelto unicamente per il suo gradevole profilo d’attor giovane. Così poco esaltante - anche per chi sta con la sinistra - è questa campagna elettorale che il presidente del Consiglio uscente, Amato, pensa di non candidarsi, e che il ministro Veronesi annuncia il suo ritiro dalla politica. Tutti sono «piazzisti», ma se il termine vuol riferirsi a Berlusconi devo dire che ne vedo in giro molti altri, e in generale peggiori di lui per la spregiudicatezza con cui vendono un prodotto elettorale mediocre. Per quell’eterno e non irragionevole pessimista che tu sei, una rinuncia a immischiarti in questa bagarre poteva essere logica. Ma senza dimenticare che tra i «piazzisti» del centrodestra vi sono uomini - cito soltanto Antonio Martino, Giulio Tremonti, Alfredo Biondi, Livio Caputo - che sentivamo a noi vicini allorché combattevamo una solitaria battaglia, e che sono ancora loro, nessun dottor Frankenstein li ha mutati.
Invece hai preferito schierarti. È un tuo diritto. Ma è un colpo al cuore di tanti che giuravano per Montanelli, che facevano del Giornale una professione di fede nel nome di Montanelli, e che rimpiangono quel Montanelli senza riuscire a rinnegare, per antico attaccamento, il Montanelli di oggi dal quale si sentono tuttavia respinti.
Su Telemontecarlo hai lanciato una stoccata a chi - le generalità sottintese erano quelle di Silvio Berlusconi - definisce queste elezioni un ritorno alla democrazia. Negli ultimi anni, hai ironizzato, «io mi sono sentito in un regime profondamente democratico». Non ho la veste né la voglia di atteggiarmi a interprete autentico di Berlusconi. Ma con quella sua espressione il Cavaliere alludeva, mi sembra, alle giravolte con cui, avendo il popolo italiano eletto nel 1996 Prodi e una determinata maggioranza, lo stesso Prodi fu poi sostituito da D’Alema, e D’Alema da Amato, e la maggioranza ebbe connotazioni cangianti e ambigue, con entrate e uscite di parlamentari disinvolti.

Nessuno vuol sostenere che in Italia si sia vissuto in una dittatura: ma si è vissuto in un regime trasformistico che delle regole d’una democrazia fisiologica ha fatto un uso, prendendo in prestito un tuo termine, assai simile alla truffa.
Queste cose ho ritenuto, caro Indro, di doverti dire con un’amicizia e un affetto che durano e che dureranno così come l’amicizia e l’affetto che tanti beceri e rozzi ebbero e continuano ad avere per te.

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