L’arte sul digitale supera la realtà

I maestri del Prado raccolti in un tour virtuale. E con dettagli che non si vedono a occhio nudo. La Pinacoteca di Madrid è la prima al mondo a tentare questo esperimento

L’arte sul digitale  supera la realtà

Ci siamo arrivati. Sembrerà facile ricordare il testo profetico di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ciò che non era stato possibile con l’incisione diventa ovvio, al limite della falsificazione, attraverso la fotografia. Prima la fotografia uccide l’opera d’arte, e in particolare quella con le più esplicite ambizioni realistiche (a partire dal primo «fotografo» in pittura, Caravaggio), e sostituendosi a essa, nella documentazione del reale; poi, con progressivi avvicinamenti, duplica ciò che è stato prodotto nella storia di tutte le arti, avvicinando ciò che è lontano. Il processo è così vertiginoso che, nell’infinita riproducibilità, non si rischia soltanto di perdere l’«aura» che l’originale possiede, per la sua stessa natura e per il luogo in cui è posto, sia chiesa o palazzo, ma poi anche il museo dove è esposto come un trofeo proprio per la sua eccellenza; ma anche di conoscere prima e meglio la riproduzione dell’originale.

Chiunque abbia fatto il pellegrinaggio per vedere la Gioconda di Leonardo ha visto un’opera che già conosceva. Si è dunque limitato a un atto dovuto, cercando nel dipinto esposto al Louvre la riproduzione dell’immagine che aveva già visto in cartolina o nei libri su Leonardo. C’è un primo inventario del mondo dell’arte in bianco e nero che segue gli anni pionieristici degli studiosi che girano l’Italia con un taccuino per tenere a memoria con schizzi i dipinti veduti. La fotografia diventa un corredo inevitabile a partire da Bernard Berenson che, travolto dall’utilità della documentazione, riduce i testi critici a puri elenchi delle opere degli artisti nei suoi memorabili «indici» per luoghi e per autori (quelli che Roberto Longhi chiamerà gli «orari ferroviari» della pittura italiana).

Da quel momento ogni libro d’arte sarà un libro fotografico; e gli editori italiani si avvieranno a una sempre maggiore fedeltà, fino agli anni in cui, come accade anche nel cinema, irrompe il colore (le celebri quadricromie), che comporterà un lento e non sempre compiuto adeguamento ai colori dell’originale. Una piccola rivoluzione fu nei primi anni Sessanta la serie dei «Maestri del colore» ideata con assoluta semplicità, tavole grandi ad alta definizione e testi brevi, a costi molto contenuti, quindi popolarissima, dai Fratelli Fabbri, mentre a livelli più alti, e a prezzi elevati, si svilupperà parallelamente un’editoria prestigiosa spesso sostenuta con il contributo delle banche. Al culmine di questo perfezionamento tecnico della riproduzione si pone l’ambiziosa avventura di Franco Maria Ricci, in particolare con la rivista FMR nella quale, con un occhio al lusso, si matura la concezione dei Fratelli Fabbri con un prevalere delle illustrazioni sopra ai testi, peraltro affidati a grandi scrittori, e si moltiplicano all’inverosimile i particolari.

Ci stiamo avvicinando a quello che oggi senza stupirci propone su Internet il Museo del Prado. Ma andiamo con ordine. Dopo l’esperienza di Ricci è un sensibile e colto restauratore, Bruno Zanardi, che intende usare le fotografie di particolari ravvicinati nello studio delle opere di Giotto e dei pittori che lavorarono con lui ad Assisi per distinguere, nel dettaglio impercettibile a occhio nudo e alla visione diretta dal basso, senza il vantaggio delle impalcature per il restauro, le diverse mani. Lo seguirà su questa strada il giovane storico dell’arte Filippo Todini che anche recentemente pubblicherà un volume maestoso del pittore umbro Niccolò di Liberatore detto l’Alunno con così ampi e dettagliati particolari fotografici da produrre nella visione l’effetto di più vero del vero.

Il momento in cui la riproduzione diventa sostituzione, non consentendoci di avere la percezione della differenza, è con due recenti iniziative a Venezia e a Milano. Napoleone portò a Parigi le Nozze di Cana di Paolo Veronese, un grandioso telero che tutti vedono al Louvre. Ma, con questa rapina, il refettorio di San Giorgio a Venezia, capolavoro di Andrea Palladio, rimase privo del dipinto che dava senso allo spazio. Meno di due anni fa ne fu proposta una riproduzione fotografica a grandezza naturale stampata su un supporto che offriva anche le asperità, gli avvallamenti del colore, l’apparenza della superficie tale da non consentire di riconoscere la differenza con l’originale. E così, quando la Sovraintendenza di Milano sostenuta immotivatamente da Salvatore Settis proibì a Peter Greenaway d’illuminare con una regia non passiva il Cenacolo di Leonardo, fummo costretti a commissionarne un clone da esporre in palazzo Reale a Milano e sul quale i virtuosi esercizi luminosi di Greenaway si potessero applicare. Sia per Veronese che per Leonardo l’impresa è stata affidata ad Adam Lowe, che non si è limitato a un facsimile, prodigiosamente simile al vero, ma ha creato una replica meccanico-artigianale con un sistema di scansione e di fotoriproduzione su materiale plastico che consente di percepire anche l’intreccio della tela di supporto.

E ora, ecco la sensazionale offerta del Prado di poter vedere da vicino quei capolavori che in un museo si vedono con difficoltà, per la presenza di visitatori fastidiosi e per l’impossibilità materiale di vedere le opere da vicino nella condizione ideale di un restauratore, con solitudine e concentrazione, lenti ed altri strumenti. Per Velázquez, Rubens, Goya, El Greco, Rembrandt, Bosch, Dürer, Van der Weyden, la visione su Internet consente non solo la fedeltà della riproduzione del dipinto, di cui peraltro non è facile percepire le dimensioni originali in assenza dello spazio fisico, ma, appena superato questo limite (e certamente fra breve ci verrà data anche l’illusione dello spazio), all’occhio è consentito avvicinarsi ai particolari dei dipinti fino a vedere dettagli impercettibili e con straordinaria fedeltà e amplificazione.

Il procedimento elettronico ti assolve dalla visita al museo e non ti garantisce una percezione analoga ma inferiore rispetto alla realtà, bensì identica e superiore. La finzione ha superato la realtà. Il teorema di Benjamin si è compiuto, togliendo all’opera d’arte la sua unicità che rimarrà piacere inestinguibile degli amatori, ma non sarà più sufficiente a una conoscenza compiuta senza l’integrazione del duplicato. È un concetto che va oltre anche il clone perché offre, come furono per gli uomini e per le opere d’arte i raggi X, strumenti nuovi di conoscenza. Insomma, la fine di una civiltà e la maturazione estrema dell’invenzione rivoluzionaria della fotografia. Si può abbandonare la realtà e vivere nella finzione.

D’altra parte i pittori lo avevano capito: Vittore Carpaccio firmava non «Carpatius pinxit», ma «Carpatius finxit», Carpaccio non dipinse, ma finse, tanto era simile al vero. E oggi le fiction hanno sostituito la vita.

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