L’equivoco della tessera da giornalista

Daniele Capezzone
C aro Direttore,
in merito al dibattito sull’abolizione dell’Ordine dei giornalisti faceva un po' effetto leggere ieri il curioso intervento del Presidente dell'Ordine, Lorenzo del Boca, che rimproverava a me (che sto in Parlamento da tre mesi!) una riforma non fatta da circa quarantatré anni... Ma lasciamo perdere, e veniamo al punto.
Primo. Sa dirmi Del Boca come mai l'Italia è l'unico paese o quasi del mondo occidentale ad avere una struttura di questo genere? E sa dirmi come mai, nonostante questo «gioiello» chiamato a garantire (se ben capisco) il diritto dei cittadini ad essere informati, l'Italia è (a torto o a ragione) in fondo a tutte le classifiche mondiali sulla libertà di stampa?
Secondo. Sa dirmi qualche altro difensore dell'Ordine come mai, nel mondo anglosassone (dove non esiste questa corporazione, ma - com'è giusto - vivono libere associazioni di professionisti, accanto ad un forte sindacato), c'è una severità e un'attenzione alla deontologia che qui non abbiamo mai visto neppure con il cannocchiale? Quando, qualche mese fa, un redattore del New York Times è stato beccato a copiare un articolo, non è stato cacciato solo lui ma (giusto o sbagliato che fosse) si è dimessa l'intera direzione del giornale.
Terzo. Sa dirmi qualche rappresentante dell'Ordine come mai questa struttura, così solerte - cito a caso - nel sanzionare Enzo Tortora all'indomani dell'infame inchiesta contro di lui, o a prendersela con Alberto Castagna, o a polemizzare con Mara Venier (perché, secondo l'Ordine, le interviste le potrebbero fare solo i giornalisti iscritti!), o a contestare a il Giornale la pubblicazione di una foto, come mai - dicevo - questa struttura così solerte in queste occasioni sia - invece - ancora pressoché immobile nei casi di «calciopoli» e «spiopoli», dove la tutela del diritto dei lettori non sembra avere fatto esattamente una buona fine?
E allora, caro Del Boca, non facciamo come i tassisti più rumorosi e prepotenti, quelli pronti a bloccare le città se qualcuno osa mettere in discussione lo status quo. Semmai, ci si ponga nello spirito aperto di Paolo Serventi Longhi, leader del sindacato dei giornalisti, che - in modo serio e senza barricate - si è detto disponibile a discutere.
Tra l'altro, com'è noto, da Luigi Einaudi in poi (fino ad arrivare a tante autorevolissime firme del giornalismo), moltissimi hanno posto e continuano a porre la questione, ben al di là dei radicali. Perché non discuterne, allora? Il meccanismo che abbiamo proposto è quello adottato da quasi tutti i paesi del mondo, a partire dalla Francia: sia considerato giornalista non solo e non tanto chi sia titolare di una tessera, ma chi il giornalista lo fa per davvero, perché a questo dedica la sua attività lavorativa e professionale.


A meno che qualche solone non voglia negare il titolo di giornalista a chi, come Antonio Russo, non aveva tessere, ma raccontò attraverso Radio Radicale (dall'Algeria alla Bosnia alla Cecenia, pagando di persona) quello che tanti illustri «tesserati» non videro o finsero di non vedere.
*Segretario dei Radicali italiani, presidente della Commissione attività produttive della Camera

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