L’Europa? È il centro di tutte le «periferie»

Alessandro Barbero illustra un’opera monumentale dedicata a 5mila anni di storia

Un’opera grandiosa: non tanto per le dimensioni (15 volumi, 12mila pagine, 480 foto, disegni e cartine), quanto per la campitura dell’arco di cinquemila anni che abbraccia. Coraggiosa: non tanto per l’impegnativo investimento affrontato dalla casa editrice Salerno, quanto per l’impegno e il dispiegamento di studiosi - una nutrita squadra di giovani capitanati dagli eccellenti Roberto Bizzocchi, Sandro Carocci, Gustavo Corni, Stefano De Martino, Maurizio Giangiulio, Giusto Traina - messi in campo per affrontare la ricerca. E rivoluzionaria. Lo spiega Alessandro Barbero, professore di Storia Medievale all’Università del Piemonte Orientale e direttore della straordinaria Storia d’Europa e del Mediterraneo.
Professor Barbero, una «nuova» storia vecchia di cinquemila anni. Una prospettiva rivoluzionaria sul Vecchio Continente europeo. Quale può essere la novità di una storia tanto antica?
«La novità si coglie soprattutto se si tiene conto che la storiografia - fino all’Otto e Novecento - si è preoccupata soprattutto delle identità nazionali. Solo negli anni Novanta iniziano a fiorire le storie d’Europa, ma la difficoltà stava nel definire che cosa fosse. Perfino la definizione geografica risultava problematica: la Russia è Europa? E la Turchia? Per non dire di quella storica: da quando si inizia a parlare di Europa? È un’avventura tutta occidentale? Segnata da Illuminismo e rivoluzione industriale? Si può trascurare l’Est europeo? Le radici comuni andavano cercate più lontano. Nel cristianesimo, che ha lasciato il suo segno ad Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Nell’Impero Romano, che lasciò un’impronta in Nord Africa e in Irak. “Europa” è un concetto che iniziava a stare stretto. Bisognava dilatarlo nel tempo e individuare nello spazio un più ampio bacino comune di civiltà».
Il Mediterraneo.
«Sì, il bacino del Mediterraneo raccoglie la complessità di una civiltà millenaria che abbraccia tutto l’arco della storia umana. Dalle origini dell’umanità: perciò il nostro racconto prende le mosse dal Neolitico. Non c’è nessuna storia europea che si narri a partire dalla preistoria».
L’Europa all’origine della storia del mondo. Un nuovo eurocentrismo?
«L’eurocentrismo è in certa misura inevitabile: la globalizzazione l’ha fatta l’Europa, imponendosi nel mondo. Ma, per quanto estesa a una grande porzione del pianeta, la storia della civiltà europea non è una visione mondiale, non comprende l’intera civiltà umana: la cultura cinese - per quanto oggi avviata verso l’europeizzazione - è altro. Comprende però senza dubbio l’Islam, che è più prossimo alla nostra cultura di quanto comunemente si creda».
L’Europa, una storia di sempre nuove origini: l’inizio greco, gli albori medievali, il Rinascimento, il sorgere degli Stati nazionali, il tramonto dello Jus Publicum Europaeum e la ricostituzione dell’Unione giuridica... Quante volte in 5mila anni l’Europa è rinata, rimorta e ancora resuscitata...
«È vero, si assiste a una fenomenologia di partenze. Ma non parlerei di morti e rinascite quanto di trasformazioni e rinnovamenti. La stagione greca ad esempio, che vide sorgere l’idea di democrazia, il pensiero critico, la forma della città, non tramonta con l’avvento della romanitas, che è tutta innervata e animata di grecità. A Roma la Grecia conosce una nuova fase. E così il Medioevo si sovrappone alla tarda romanità tanto strettamente che non abbiamo potuto sciogliere - nei volumi VII e VIII - il racconto del declino della romanità (o il suo “imbarbarimento”) da quello dell’espansione del cristianesimo. L’intreccio è fittissimo: annoda insieme mille fili durevoli. Abbiamo purtroppo interiorizzato metafore storiografiche - il Rinascimento, le “invasioni barbariche” - che vanno impiegate con attenzione: enunciano cesure che nascondono tenaci continuità. Più che svolte e nuovi inizi ci sono alti e bassi dentro una storia millenaria. Anche oggi, parrebbe, stiamo vivendo un imbarbarimento, ma chissà a quale nuova fase europea prelude: a quale nuova trasformazione d’identità».
Identità, appunto. L’Europa conserva la propria, oggi che è respinta ai confini di un nuovo impero globale? Indagando il suo passato remoto avete messo a fuoco un concetto cruciale, con una domanda: «Periferie? Asia Minore, Sicilia, Magna Grecia».
«È, appunto, una domanda: periferie? O non piuttosto baricentri? L’idea del “confine”, anche meramente geografico, e di “periferia” va messa tra virgolette. La storia d’Europa ci parla di una cultura in viaggio: in continuo slittamento, movimento, spostamento. Napoli era una città greca nell’Alto Medioevo, come Pompei, o Marsiglia. Persino a Cartagine si parlava il greco e si costruiva secondo i canoni ellenici. I Persiani erano più greci di quanto sembri. E in Nord Africa sono venute in luce tracce di romanità. C’è un meticciato continuo».
Lei parla di romanità e io le chiedo dell’italianità. Notevole che una ricerca storica di questa grandezza si compia in Italia. La nostra penisola, in questa vicenda millenaria, «periferica» non è mai davvero stata.
«No, neanche tra virgolette, neanche col punto interrogativo o in senso dubitativo. L’Italia ha avuto un ruolo importante in tutte le fasi della storia mediterranea. Della Finlandia, ad esempio, si può iniziare a parlare solo negli ultimi secoli. L’Italia c’è dall’inizio: in qualunque modo la storia europea vada declinata ha un ruolo fondamentale. La polis greca trapiantata a Roma ha prosperato come mai altrove. Le città altomedievali furono grandi potenze commerciali... Va dunque rivista l’idea sei-settecentesca di un Paese in declino preoccupato di riscattarsi. Non va visto però alcun trionfalismo in questo discorso, cui preme solo l’impronta di una cultura sulla storia umana. Certo, il baricentro si è ultimamente spostato verso Nord. La linea decisiva della potenza politica, economica e militare è slittata verso l’Atlantico. Ma qui ci siamo fermati: di fronte agli Stati Uniti la nostra storia si arresta e ne incomincia un’altra».
Un’altra che non ci è estranea, se mondiale è lo scontro di civiltà che oppone gli Usa al «mediterraneo» Islam. Quanta parte ha la religione nella vostra ricerca?
«Una parte da protagonista. I tre grandi monoteismi sono strettamente legati tra loro in tutti i momenti della storia europea e mediterranea. Perciò abbiamo cercato di riservare loro lo stesso spazio. Il Cristianesimo e l’Islam, in particolare, sono due regioni gemelle. Mettere in luce questo legame, però - indagando per esempio concetti trasversali come “sacralità” o “ritualità” - non è sempre stato facile per storici nati e cresciuti dentro il cristianesimo: è stato uno sforzo nuovo».
«Una di lingua», l’Europa non è. Che parte hanno le lingue storiche in uno studio che supera l’idea di nazione?
«Al problema linguistico tenevo moltissimo, è decisivo nella cultura della comunicazione: la lingua è sempre stata un grande veicolo di civiltà. Il greco era parlato e capito in tutto il Mediterraneo. E poi il latino, l’arabo, fino alla lingua franca inventata dalla commistione di italiano, spagnolo e arabo».
Oggi dappertutto si parla inglese, quello globish del World Wide Web: segno dell’imbarbarimento cui accennava?
«Chi può dire che sia un imbarbarimento e una perdita di identità? Se fosse - come sempre storicamente è - una fase, il preludio a un altro rinnovamento? Se l’inglese favorisse una nuova incarnazione della civiltà europea? Chi sta dentro questa fase non se ne accorge, non sa, non può dire, prova disagio. Ma alla lunga lo shock è attenuato. Leggere un declino apparente sull’arco dei millenni è rassicurante».
De consolatione historiae, allora? È la cultura storica ad offrire, meglio della filosofia, una consolazione e un rimedio?
«Credo di sì. La conoscenza della storia non sempre è diffusa e soprattutto non sempre è capita come capacità critica. Storia è altro da ideologia e pregiudizio.

È diversa dalla memoria e dalla passione. Certo, la passione c’è sempre, ma l’approccio dello storico dev’essere quello di chi sa relativizzare lo sguardo sulla vicenda dell’umanità e vederne con disincanto la successione dei momenti».

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