L’ultima follia: casco in bicicletta per legge

Il nuovo codice della strada contiene obblighi paradossali: chi cade dalle due ruote non rischia più di chi va a piedi. Allora, tanto vale imporre di proteggere la testa anche ai pedoni e di indossare la maglia della salute

L’ultima follia: casco 
in bicicletta per legge

Per fortuna che me l’hanno rubata la mia Dei; intendo la «Umberto Dei», la bicicletta più classica ed elegante prodotta in Italia, anche Vittorio Feltri ne ha una, ma è ormai rassegnato a tenerla in garage. Infatti un’altra delle libertà fondamentali, in nome della sicurezza dei cittadini, è stata gravemente condizionata; né, credo, si potrà sperare che un ravvedimento risarcisca anche soltanto il danno emotivo dell’annuncio: l’obbligo del casco per chi va in bicicletta.

Io sono nato a Ferrara, dove andare in bicicletta è un rito che pertiene alla civiltà della conversazione. Ci si incammina, ci si incrocia, ci si ferma a parlare, si riparte. Il vento leggero o la nebbia ti entrano nei capelli. Si avanza a passo di trotto, poco più veloci che a piedi, ma si possono fare lunghe distanze nella città delle meraviglie con le larghe strade che vanno verso l’infinito in uno spazio raddoppiato rispetto a quello medievale tortuoso e inadatto alle biciclette. Forse la consuetudine all’uso delle biciclette deriva proprio da questo, dall’«addizione erculea», l’ampliamento della città che ha moltiplicato le distanze e le ha rese inadatte a un percorso a piedi.

La bicicletta resta comunque una protesi delle gambe, non ha motore, procede per impulso del corpo e riproduce la mitica figura del centauro. La bicicletta muove l’aria, fabbrica il vento, e chiede che la testa lo avverta. Certo, ogni volta che si esce di casa si corre qualche rischio, un ciclista può essere investito ma non corre i rischi tipici di chi va a motore per il quale, in automobile, è prescritta la cintura di sicurezza e, in motocicletta, è previsto il casco. Un ciclista non si può far male cadendo più di quanto si possa far male chi andando a piedi inciampa. Il rischio quindi non è implicito nel mezzo ma nelle circostanze che spesso dipendono dall’imprudenza di automobilisti e motociclisti.

Ma, allora, se dobbiamo imporre il casco ai ciclisti dobbiamo imporlo anche ai pedoni. E, poi, contro il raffreddore, per legge, dobbiamo imporre anche la maglietta della salute. D’altra parte ormai anche alle prime esperienze sessuali, vergini e con i distributori automatici nelle scuole, i ragazzi sono esortati a usare il preservativo, introducendo nei rapporti amorosi l’atteggiamento più estraneo, che è la diffidenza. Ovvero il sospetto della pericolosità del supposto amato. Meglio allora la castità!

Il casco per i ciclisti è come il preservativo per la testa, senza voler nulla insinuare. Annulla il piacere del vento, della felicità di sentire la dimensione dell’aria, i rumori della strada, le parole delle persone. Il casco ti sigilla e ti esclude, trasforma il mite spostamento in bicicletta in un atto onanistico come quello di chi non va in nessun luogo su una cyclette per fare ginnastica.

Finito il vento del viaggio che ti porta non so dove, penso al mito infranto per lo scrittore che elesse la bicicletta a suo privilegiato veicolo di viaggio e conoscenza: Alfredo Oriani, che scrisse un romanzo (Bicicletta, 1902) su questa esperienza e che con la bicicletta è rappresentato nel monumento di Alfredo Biancini che gli volle dedicare Casola Valsenio, la sua città natale.

Rassegnato, oggi, Oriani resterebbe in casa ad attraversare la sua Romagna sulle carte geografiche per non trovarsi imprigionato dentro un elmo bellicoso.

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