Dopo i giorni della finanziaria, fischiare i potenti non fa più notizia. Non tutti i fischi, però, sono uguali. Alcuni fanno più male di altri. La contestazione degli operai di Mirafiori nei confronti della Cgil di Guglielmo Epifani non soltanto sarà ricordata come una svolta, alla stregua dell'ormai mitica «marcia dei 40.000», ma riassume bene le trasformazioni sociali delle quali questa Finanziaria non ha tenuto conto e le ragioni per cui la tanto agognata «fase due» del governo difficilmente decollerà.
Nel modello italiano di relazioni industriali Cgil, Cisl e Uil non si sono limitati a svolgere una funzione di rappresentanza degli interessi. Essi, agendo all'interno di uno schema di vera e propria concertazione sociale, hanno esercitato un più ambizioso ruolo di governo. Il giudizio sui risultati conseguiti da tale modello è controverso, ma anche gli scettici - come il sottoscritto - devono comunque riconoscere che la particolare configurazione del potere sindacale ha, in certi periodi, garantito importanti risultati in termini di raffreddamento della conflittualità sociale.
Ma negli ultimi tempi le cose sono cambiate. La struttura sociale e il mondo del lavoro vanno rapidamente modificandosi e l'affermarsi della democrazia dell'alternanza ha posto in crisi quel sistema di concertazione che funzionava solo in un contesto di «politica bloccata» per mancanza di ricambio. Tutto ciò ha messo in crisi il sindacalismo tradizionale ponendolo di fronte a nuove istanze sociali, prive di rappresentanza: basti pensare alla crescita impetuosa dei lavoratori atipici. L'impressione invece è che il sindacato non capisca o non voglia capire. Esso, infatti, sta affrontando la sfida da una posizione difensiva e corporativa: da un lato concentra la sua azione sui settori protetti - pubblico impiego, trasporti, pensionati - nei quali minori sono le forze che spingono verso il cambiamento; dall'altro lato cerca di rafforzare la propria forza di interdizione, nell'illusione che un improprio potere di veto e di gestione possa arrestarne il declino.
Quanto accaduto in occasione della Finanziaria ne è la prova. Non casualmente, i lavoratori della Pubblica amministrazione sono stati gli unici ad aver avuto soddisfazione grazie al trasferimento di ingenti risorse: quasi un quinto dell'intera manovra per il prossimo biennio. Parallelamente, il sindacato ha chiesto e ottenuto una modifica normativa che sostanzialmente smantella i controlli sulla coerenza finanziaria dei contratti collettivi - corte dei conti, ragioneria, comitati di settore - minando in profondità l'equilibrio del sistema. Per completare l'opera, quindi, ha preteso la rimozione dei vertici dell'Aran (l'agenzia che negozia i contratti collettivi), che saranno presto sostituiti con persone di «gradimento sindacale» se non addirittura di «provenienza sindacale». Fatti saltare i controlli, garantita unAran «amica», il rischio è che i contratti collettivi del pubblico impiego finiscano per essere scritti, in splendida solitudine, dai sindacati.
L'offensiva sindacale si è poi allargata alla Commissione di garanzia sullo sciopero. Che le modalità, a volte selvagge, di sciopero nei servizi pubblici producano gravi disagi ai cittadini è un dato di comune esperienza. E se una critica va mossa alla Commissione è di essere stata sinora troppo indulgente. Per questo, la scelta di delegittimarne i vertici della commissione ponendo delle inconsistenti questioni sulla «colleganza politica» di alcuni commissari, è risibile. Hanno infatti rivestito tale ruolo anche ex ministri ed ex deputati di sinistra e, in quel caso, nessuno si è sognato di obiettare. Non è stato neppure risparmiato il tentativo - per fortuna fallito - di decimare la dirigenza della Ragioneria generale dello Stato per accontentare la richiesta di rimozione di un dirigente inflessibile e, per questo, «non gradito». Infine, come ciliegina sulla torta, è giunto un emendamento con il quale si sono unificate le scuole della pubblica amministrazione in un'unica agenzia. Voci di corridoio danno per certo che, alla faccia dell'imparzialità e dell'indipendenza, l'intento sarebbe quello di affidarla all'ex-ministro diessino Franco Bassanini.
Si è così compiuto un abbraccio tra sindacato e governo avente ad oggetto il controllo della Pubblica amministrazione e il suo consolidamento come zona protetta di privilegio e di irresponsabilità. I quasi 7 miliardi di euro (destinati peraltro a diventare molti di più a seguito dell'emendamento salva-contratti concordato con i sindacati) stanziati per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, rendevano ragionevole che il governo pretendesse una qualche contropartita. Quanto meno, il miglioramento dell'efficienza del lavoro e l'uso razionale delle risorse, in luogo della consueta diffusione «a pioggia».
Non casualmente, questi impegni sono invece mancati. E, in loro assenza, l'annuncio di un piano di liberalizzazioni negli Enti locali appare più uno slogan a effetto che un reale e percorribile intendimento del governo. Ancora più arduo è che poi sortisca qualche effetto la richiesta del ministro Rutelli che, in cambio di un presunto rigore offerto in termini di finanza pubblica, si aspetta il consenso dei sindacati su un'operazione di riforme e rilancio economico. Proprio qui si svela la contraddizione di fondo della quale il governo rischia di restare vittima: ha inteso fare una Finanziaria di lacrime e sangue all'inizio della legislatura contando sul tempo di sedimentazione del giudizio degli elettori.
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