L’Unione vuole adottare gli stranieri, i Paesi arabi no

Il governo chiede alle Camere norme per una «cittadinanza rapida»

Stefano Giani

Dietro burqa o chador resta il muro. La civiltà multirazziale fatica ad abbattere steccati e diaframmi. Le picconate, se ci sono, restano a senso unico. La reciprocità, nuova parola in voga nel politichese, defilé autunno-inverno, non funziona perché appunto... a senso unico. E la cittadinanza italiana agli stranieri, quasi mai si sposa con le procedure richieste da Paesi esteri, soprattutto del mondo arabo, per dare il loro passaporto a un italiano.
Alla Commissione Affari costituzionali della Camera è stato depositato il 4 agosto un disegno di legge del governo unionista con due finalità: «Pervenire a un’armonizzazione della cittadinanza con quella degli altri Stati membri dell’Ue» e cancellare il favor nella concessione dello status italiano a vantaggio dei cittadini comunitari rispetto a quelli di Paesi terzi. In particolare il governo auspica tempi brevi e tappe snelle. In nome della modernità. Il sospetto che dietro la «cittadinanza rapida» ci sia la volontà di attingere a un serbatoio di voti, nuovo di zecca, esiste eccome; la certezza non ce l’ha nessuno. E il deputato di Fi Enrico Costa, componente della commissione giustizia della Camera e figlio dell’ex ministro liberale Raffaele, che ha presentato una relazione sul tema, non vuol sentirne parlare: «Sarebbe molto triste se così fosse. Opto per una differente interpretazione: il centrosinistra è convinto che l’integrazione avvenga con il rilascio di un passaporto, noi della Casa delle libertà crediamo che l’inserimento sia un percorso che si compie giorno per giorno all’interno della nostra comunità con l’adeguamento a relative regole e che la cittadinanza sia solo il sigillo di un percorso compiuto».
Comunque sia, resta l’operazione compiuta da Costa che ha fatto il cammino inverso: è andato a vedere cioè cosa capita a uno di noi che volesse diventare cittadino di un Paese arabo. Ne sono venute fuori di tutti i colori, ma la tanto invocata reciprocità è andata, se ci è concesso, a farsi benedire. Eh sì, perché la religione è un tasto delicato: chi è nato in Marocco da genitore straniero può diventarne cittadino se il padre è originario di uno Stato «avente per lingua l’arabo e per religione l’Islam». Analogo vincolo vige in Egitto, mentre sia il governo del Cairo sia la Libia non concedono il passaporto a chi ha semplicemente visitato Israele.
Occorre poi essere sani, anzi sanissimi, «di corpo e di spirito» per il legislatore marocchino per il quale la malattia è criterio discriminante, a meno che non sia stata contratta nell’interesse della nazione. Vita dura anche per i disabili: la Siria non concede loro il passaporto nel caso l’handicap impedisca loro di lavorare. Idem per chi ha malattie contagiose, Tunisia ed Egitto sono attentissimi al certificato medico e alle «infermità che possono rappresentare un onere per la società». Interessante anche il capitolo dei diritti civili: se l’Unione vuole dare il passaporto a un immigrato dopo soli 5 anni, nei Paesi islamici ce ne vogliono 15 per darlo a chi non crede al Corano.

Poi la mannaia dei tagli: in Marocco i naturalizzati non possono ricoprire ruoli elettivi; in Libia non si può diventare ministri o diplomatici, tanto meno «assumere una carica che potrebbe occupare un libico»; in Egitto si può essere eletti in assemblee rappresentative dopo 10 anni. Ma non basta, nella terra dei Faraoni, «l’egiziana che sposa uno straniero conserva la cittadinanza». Il messaggio è chiaro: ringrazi Allah di non doverla perdere.

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