"L'alcol e la nostalgia" seduti nello stesso vagone della Transiberiana

Il libro è nato come dramma radiofonico. A colpi di vodka e suggestioni letterarie

"L'alcol e la nostalgia" seduti nello stesso vagone della Transiberiana

La passione distrugge, il ricordo strazia, ma la vera calamità è il presente, che ci costringe a guardare. È questa, filtrata attraverso le maglie finissime del mito della grande Russia, la sentenza poetica del magico libretto firmato dal premio Goncourt Mathias Énard, L'alcol e la nostalgia, di cui in questa pagina pubblichiamo un brano. Si tratta, come spiega una brevissima nota, dell'adattamento più o meno fedele di una fiction radiofonica di cento minuti scritta sulla Transiberiana fra Mosca e Novosibirsk e trasmessa da France Culture nel luglio 2010.

C'è, nelle prime pagine, una di quelle donne fluttuanti e tossiche, splendenti e colte, di cui il Mathias autore-protagonista subisce il fascino. Qui il nome è Jeanne e basta una sua telefonata quasi muta, in cui solo soffia il nome di Vladimir, alle tre del mattino da un numero russo con prefisso di Mosca, a far prendere a Mathias un aereo. Otto giorni dopo il nostro è all'aeroporto Seremetevo, con l'impressione di avere sbagliato Paese e la certezza dell'inconoscibilità di ciò che lo circonda. Jeanne, con l'alito che sa di etere, vodka e medicine, lo aspetta alla stazione Belorusskaja, nel cuore della «città dei mille e tre campanili e delle sette stazioni», e con lei prende avvio una storia che alla fine è quella di un ritorno.

È quel Vladimir della telefonata che Mathias dovrà accompagnare - Vladimir morto, in una cassa - attraverso la Russia fino in Siberia, per riportare il suo corpo a casa. Ma è in realtà un flusso di memoria e di storia che a noi arrivano, mentre sul treno i due viaggiano senza potersi parlare, come pallottole sparate al ralenti: «Ti riporto al tuo paese, Vladimir, ti riporto a casa, a duecentoventitré chilometri da Novosibirsk, duemilaottocentoquattordici da Mosca e cinquemilatrecentoquaranta da Parigi, cioè un buon centinaio di giorni di cavallo, di trojka o di slitta d'inverno». Mathias che odia i viaggi passerà ore e ore solo, con i ricordi, l'alcol e la nostalgia. E tra i ricordi infilerà indifferentemente anime russe diverse: Cechov, il medico morto bevendo champagne, o Trockij, «che passa due anni nel suo vagone a strappare le città ai Bianchi», in un treno che avanza a due all'ora ma che contiene una biblioteca, una sala dello stato maggiore tappezzata di cartine e persino una tipografia per stampare un giornale rivoluzionario. E dappertutto la guerra.

E poi ci sono Dostoevskij e Gogol', Aksonov e Mandel'stam e tutti i fantasmi che, come una benefica nebbia, possano dare sollievo al dolore di esistere in un Paese che a ogni passo seppellisce violenza e giovinezza. Fantasmi visti dallo sguardo di un francese dalla scrittura straordinaria, che passeggia nella letteratura russa con devozione sconfinata. Fantasmi che, come accade sempre con Énard, vengono definiti da una collocazione geografica così ossessiva da risultare commovente e che diventa l'unico modo, per il protagonista, per non perdere il senno.

Perché naturalmente, tra i demoni letterari e storici della Russia dell'Ottocento, Énard fa rivivere la rievocazione dell'amicizia con Vladimir e dell'amore per Jeanne, conditi da droghe pesanti e troppe follie. Per questo serve l'alcol, nei 4mila chilometri tra Mosca e Novosibirsk: per garantire che quelle visioni non si trasformino in premonizioni e che il maledetto presente non porti con sé solo buio e neve, fino alla fine.

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