La «lap dance» che fa incontrare gli dei

Stefano Zurlo

nostro inviato a Bahia

L’appuntamento è alle nove della sera al terreiro di Casa Branca, uno dei più antichi della città. Un cancello senza alcun filtro e si entra fra i misteri e i segreti del candomblé. C’è uno spiazzo, in parte asfaltato e in parte no: al centro hanno ricostruito un barcone lungo parecchi metri e popolato di bambole. La gente, però, non si ferma: salgono tutti una lunga scala dai gradini stretti stretti e arrivano finalmente sulla soglia del barracao, lo spazio in cui avvengono i riti. La porta è aperta, lo stanzone rettangolare gremito sui quattro lati, il caldo opprimente. La cerimonia è già cominciata: le danzatrici dalle facce sorridenti volteggiano su se stesse e intanto compiono il giro completo del locale, sfiorando il pubblico, parte seduto e parte in piedi. Un giro, due giri, dieci giri, avanti ad oltranza, al ritmo delle percussioni che non smetteranno mai di dare il ritmo per quatto ore filate. I volti sono quasi tutti scuri, del resto letteralmente candomblé vuol dire danza di nero: bastano due minuti per capire che questa religione è un meteorite d’Africa conficcato nel suolo brasiliano. I ritmi, le musiche, la lingua yoruba - il portoghese dentro il terreiro è bandito - tutto rimanda alle grandi pianure del continente da cui partirono per secoli migliaia e migliaia di schiavi.
Ora i discendenti di quei disperati sono l’anima di Bahia ma le loro mani, i loro piedi, i loro corpi agilissimi eseguono ancora i movimenti dei loro lontani progenitori, mimano le mosse degli animali e dei pesci, evocano il rapporto con la loro terra d’origine, pregano le divinità. Secondo la tradizione Yoruba, esiste un dio supremo, Olorun, che però se ne sta in cielo. Sulla terra agiscono gli orixas.
In Africa il pantheon delle divinità era affollatissimo, in Brasile si è persa la memoria di molti nomi e gli orixas sono solo sedici. Quel che importa sapere è che ogni persona è figlia di un orixa e ne ha ereditato le caratteristiche fisiche, psichiche e energetiche. Insomma, gli orixas sono uno specchio delle nostre personalità ma sono anche messaggeri del cielo. Il dramma del mondo è ricomporre l’armonia che c’era all’inizio dei tempi ed è andata perduta.
«Tanto tempo fa - scrive Rosamaria Susanna Barbàra nel libro Il candomblé (Xenia edizioni), quando l’aiè, la terra, e l’orun, l’inconoscibile, erano insieme e formavano una palla, un bambino toccò inavvertitamente l’orun con una mano sporca, cosa che irritò terribilmente la divinità suprema, Olorun. Questi soffiò con il suo alito divino, ofurufu, e formò il cielo, distaccandolo per sempre dalla terra».
Le divinità rimasero in cielo, gli uomini sulla terra. Da allora si cerca di far combaciare le due metà, rimettere insieme l’orun e l’aie, lo spirituale e il materiale. Ogni uomo vuole ritrovare il suo doppio che sta nell’orun, gli orixas spingono in questa direzione, il candomblé è un flusso di energia sulla strada che riporta a quell’equilibrio mitico.
Tale unione è visibile nel palo che collega la terra e il cielo e che è sistemato al centro del barracao. Ecco, le donne che continuano le loro evoluzioni, ruotano intorno al palo, seguite dagli sguardi attenti del pubblico che canta e risponde alle litanie con voci impregnate di terra, di sudore, di dolori antichi. La stanza è disadorna, ma a ben vedere è stata addobbata e trasformata in una festa di colori: festoni corrono come lucertole sul soffitto, ma a catturare l’occhio sono le gonne di pizzo a ruota delle danzatrici che ripetono con pazienza certosina le stesse cadenze.
Sembra non accadere nulla e, invece, qualcosa succede. La danza circolare è sì ripetitiva ma è anche un modo per entrare nell’ordine cosmico. Il ritmo, dettato dai tre tamburi - il rum, il rumpì e il lè - più l’agogò a forma di doppia campana, accelera. Ecco, una delle ragazze compie movimenti incomprensibili, è scossa da fremiti, si contorce. L’orixà è entrato in lei. Due donne l’aiutano immediatamente e la tengono in piedi, anche se ha gli occhi sbarrati e le ginocchia piegate.
Ora le crisi si moltiplicano e investono anche il pubblico: una ragazza si irrigidisce, la bava alla bocca, la voce trasformata in un brontolio rabbioso. L’accompagnano fuori, in una sorta di camerino, la rivestono e la ributtano in pista. Comincia a ballare pure lei. La stessa scena si ripete sull’altro lato lungo della sala. Ora le persone in trance si contano sulle dita di due mani. I mancamenti, attesissimi dai presenti, si susseguono: semisvenimenti, pupille da ossessi, movimenti frenetici e come impazziti.
La mae de santo, la sacerdotessa, anziana, che guida la cerimonia, sorveglia autorevole e danza e cade a sua volta in trance, sorretta da due sacerdotesse più giovani. Così la sua vice.
Gli orixas portano l’energia divina nei corpi stanchi. La folla protende le mani aperte in avanti. Due fanciulle dai vestiti sgargianti aprono una danza vorticosa, sempre inseguendo un movimento circolare. Una cade in trance quasi subito, ma continua a ballare come prima, riproponendo sequenze mandate a memoria. Nel pubblico imperversano i black out e si ripete lo stesso rituale. Il posseduto viene preso per mano, scortato fuori, rivestito con i colori del rito, riportato nella sala. Finalmente, è un uomo ad andare in trance: gli tolgono subito calze e scarpe, lo spingono fuori. Cinque minuti dopo è di nuovo nella bolgia: al posto della camicia e dei pantaloni c’è una lunga tunica bianca che lascia scoperta una spalla. Inizia una danza strana: sembra una marionetta, le mani, tese, scattano con movimenti secchi, la stanza è ormai un vulcano di ritmi, suoni, colori. Quei corpi tremanti ricevono come lava l’energia benefica dispensata da Jemanjà e Osum, le due dee gelose l’una dell’altra, da Ogun, il guerriero, da Oxossi, il cacciatore, da Omolu, il temuto orixa della malattia. Molte sacerdotesse fermano le loro giravolte davanti a un altarino. Sorpresa: a testimoniare un sincretismo per noi impensabile, nella nicchia è raffigurato Cristo in croce; in basso, San Giorgio che uccide il drago.
È l’una esatta. Il caldo insostenibile. Il cronista, sfinito, si lascia andare involontariamente sul trono della mae de santo. Accenno di tumulto popolare e pronta fuga.

A cinque passi, due turisti italiani abbarbicati davanti alla porta, sono appena stati messi in fuga dall’urlo gutturale emesso da una sacerdotessa in trance. Ma ormai è finita. I tamburi tacciono. Il popolo si trasferisce oltre i camerini, in un’altra stanza del terreiro: ci si congeda così, fra dolci, torte giganti, lacrime e abbracci.
Stefano Zurlo

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