L'archeologia in trincea nella battaglia culturale

In "La passione e la polvere" di Luigi Malnati scoperte gloriose e scelte politiche da restaurare

L'archeologia in trincea nella battaglia culturale

Non ho mai dubitato che il mondo dei morti dovesse essere separato da quello dei vivi. E non solo nell'esperienza quotidiana, nella vita degli uomini che non si affidano alle sedute spiritiche, ma anche nell'amministrazione dell'eredità di un passato glorioso, di civiltà che si avvicendano e si esauriscono. Lo dice in modo eloquente Dante, misurando il passato con il presente, nel canto sedicesimo del Paradiso: «Se tu riguardi Luni e Orbisaglia/ come sono ite, e come se ne vanno/ di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/ udir come le schiatte si disfanno/ non ti parrà nova cosa né forte,/ poscia che le cittadi termine hanno./ Le vostre cose tutte hanno lor morte,/ sì come voi; ma celasi in alcuna/ che dura molto, e le vite son corte».

È vero che, nei palinsesti delle città, i luoghi dei vivi posano sulle civiltà dei morti, ma è altrettanto vero che noi possiamo, in molte città e borghi, abitare in case medievali, rinascimentali o barocche, con prospetti e tipologie immutate; assai difficilmente in case romane (ne ricordo una nella area della tomba di Cecilia Metella, e quella integra e incredibile, come una casa di Pompei, di Giorgio Franchetti). È come se il mondo dei vivi e quello dei morti fossero contigui, ma separati da un'impercettibile barriera. Questo schema ha governato anche l'articolazione della tutela con la ripartizione in Soprintendenze archeologiche, Soprintendenze ai monumenti, Soprintendenze ai musei e alle gallerie. Da qualche anno esse sono diventate Soprintendenze uniche, con una guida che può essere (raramente) un archeologo, (episodicamente) uno storico dell'arte, (frequentemente) un architetto.

Sono in parte responsabile, e lo sa bene Luigi Malnati, autore di La passione e la polvere. Storia dell'archeologia italiana da Pompei ai nostri giorni (La nave di Teseo) del nuovo assetto. Infatti, quando divenne ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, mi consultò per avere qualche suggerimento, anche per procedere alla riduzione dei dirigenti. E gli feci l'elogio delle soprintendenze miste. All'inizio della mia carriera, infatti, avevo accettato temporaneamente il trasferimento da Venezia, dove ero Ispettore alla Soprintendenza ai Beni artistici e storici del Veneto, a Perugia, dove mi trovai in una Soprintendenza in cui monumenti (poi beni architettonici) e opere d'arte (poi beni artistici e storici) erano sotto una sola amministrazione. Mi sembrava logico e giusto, perché una chiesa o un palazzo sono un organismo fatto di architettura, altari, pitture e sculture che vivono nello stesso spazio, ed era assurdo che una Soprintendenza si dovesse occupare di un dipinto e un'altra della cornice, una della pittura, l'altra del muro. L'idea piacque a Franceschini, che rese miste tutte le Soprintendenze. E, dopo qualche mese, ebbe l'idea di accorpare anche le Soprintendenze archeologiche, stabilendo il nuovo assetto. I limiti di questa riforma non sono soltanto nella diversità delle competenze, ma nella sovrapposizione degli ambiti diversi rispetto alla vita degli uomini.

La sottrazione di potere alle Soprintendenze archeologiche ha ridotto quel mondo a una sopravvivenza, di cui dà drammatico resoconto Malnati in quelle pagine. «Come vedremo, l'unificazione delle soprintendenze ha portato oggi a risultati assai peggiori, con la separazione dei musei e la supremazia di fatto di un'impostazione di tutela prevalentemente monumentale e paesaggistica». La concentrazione delle funzioni è un atto arbitrario e improvviso. La miopia della scelta è sentita con sofferenza dall'archeologo che ha vissuto il momento cruciale della trasformazione della archeologia da disciplina nobile e rispettata a residuale salvaguardia delle aree investite dal progrediente sviluppo urbanistico dell'Italia del secondo dopoguerra, in una drammatica tensione avvertita da Pasolini nel documentario del 1973 su Orte, La forma della citta. Inizia di lì una storia senza precedenti nella quale si distinguono le battaglie di Italia Nostra, fondata nel 1955, e le denunce di Antonio Cederna.

L'archeologia è una trincea in una guerra difficile, dagli esiti incerti, ma la sua Caporetto e insieme la sua vittoria è qualche tempo dopo, come Malnati intende con grande lucidità: «L'evento che in qualche modo, a mio giudizio, ha rappresentato uno spartiacque per l'archeologia italiana è stato la realizzazione, tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, della linea ad alta velocità ferroviaria (Tav) Torino-Milano-Bologna-Firenze-Roma-Napoli. Si trattava di un'operazione che ovviamente comportava grandi finanziamenti e realizzazioni di cantieri con scavi lungo tutto il percorso, per una molteplicità di servizi e infrastrutture. Sulla Torino-Napoli ebbero un primo banco di prova sia le procedure di archeologia preventiva sia l'archeologia professionale».

Nonostante questa rivoluzione, anche nell'entità dell'impegno delle Sovrintendenze, non ci fu una risposta legislativa sufficiente a garantire la tutela, in una situazione tanto mutata, nella precisa coscienza Malnati: «L'evoluzione in corso nell'archeologia militante avrebbe dovuto portare a modifiche sia sul piano normativo che su quello organizzativo. Il nuovo modo di fare archeologia non poteva convivere con strutture fondamentalmente nate nel primo Novecento e con una legge di tutela del 1939, sempre priva di regolamento applicativo. Incredibilmente, la spinta per cambiare la legge 1089 non ci fu. La maggior parte degli archeologi, e non solo, si chiuse anzi a quadrato per difendere la legge nata sotto il fascismo, come se qualsiasi modifica potesse provocare il cedimento dello stato nei confronti dei privati».

Non mutando le norme, si articola in modo diverso il ministero, soprattutto sotto la guida di Giovanna Melandri: «veniva così facilmente cancellata la direzione unica delle arti e rinascevano le due direzioni generali specifiche: dell'archeologia (poi alle antichità) delle belle arti, dei beni architettonici... anche la scelta di dare autonomia amministrativa alle due sovrintendenze speciali di Roma e Pompei fu una scelta estremamente indovinata».

Nell'attività riformistica dei governi di centrodestra e centrosinistra, in quegli anni, l'archeologia conobbe una stagione favorevole: «Credo che si possa dire senza molte incertezze che il primo decennio del nuovo secolo sia stato tra i più positivi per l'archeologia italiana. In ogni regione si era stabilita una prassi operativa che consentiva alle soprintendenze di intervenire spesso in maniera preventiva, ma anche in corso d'opera, nella maggior parte dei lavori che riguardavano il sottosuolo, e non solo per i lavori pubblici, come sancito dal complesso di norme elaborate tra il 2004 e il 2006».

Malnati indica difficoltà pratiche di varia natura, e anche virtù e limiti di divulgatori utili a diffondere la crescente coscienza civica del patrimonio artistico e archeologico. All'inizio del secondo decennio il ruolo di Malnati diventa primario, come Direttore Generale per le Antichità. La ricostruzione di Malnati è molto precisa nel periodo in cui il suo impegno fu diretto, ma nessun dubbio che il momento più traumatico, che motiva questo utile libro, è l'insediamento del governo Renzi con la sostituzione di Massimo Bray con Dario Franceschini. Ho indicato la mia relativa responsabilità nella estinzione delle Soprintendenze archeologiche. Ecco le conseguenze: «E infatti nelle Soprintendenze uniche le istruttorie e i compiti relativi alla tutela architettonica e paesaggistica sono sormontanti, mentre quelli relativi all'archeologia appaiono quantitativamente minoritari, salvo alcune situazioni tradizionali al Centrosud, dove però si collocano - e non per caso - tutti i musei nazionali archeologici e i parchi archeologici autonomi. Per concludere, affermare che l'archeologia nelle soprintendenze uniche viene sempre più ad assumere un ruolo ancillare non è fare una semplice ipotesi; e infatti molti archeologi hanno scelto di lasciare le soprintendenze per passare ai poli museali, ai musei autonomi e qualcuno anche ai segretariati, per non parlare dei pensionamenti, anche volontariamente anticipati».

Grande è la delusione di sentirsi estinti. Che l'archeologia sia diventata facoltativa è l'incubo di Malnati.

Tenteremo di dissuaderlo, ma certo la conclusione è amara. «Speriamo di non ritornare a un tempo (per qualcuno felice, chi sa?) in cui l'archeologia era un passatempo per aristocratici e signorine di buona famiglia». È un rischio?

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