LA LEGGENDA DELLE DUE ITALIE

Regola numero uno del centrosinistra: chiamarsi fuori. Negare ogni coinvolgimento e ogni responsabilità. Attribuire sempre ad altri, oltre che al destino cinico e baro, i mali d’Italia. Nei quali rientra senza alcun dubbio la «questione morale», evocata da Arturo Parisi per dare una botta agli alleati diessini, e dai diessini rispedita al mittente con una spiegazione facile facile. «Noi non c’entriamo». Loro no, la Margherita nemmeno a parlarne, Di Pietro figurarsi, Cossutta non ha ombre dal suo passato proconsolare al servizio di Mosca, Bertinotti indossa il cachemire proletario che redime.
Allora «vade retro vexata quaestio». Gli unici a doversene preoccupare sarebbero, secondo questa impostazione divertente oltre che impudente, unicamente gli uomini e i partiti del centrodestra. Lì si anniderebbero l’italico malcostume e le italiche trasgressioni dell’etica pubblica e privata. Lì c’è Berlusconi, infrequentabile anche se lietamente associabile negli affari.
La tenacia, l’audacia, diciamo pure la sfrontatezza di questa tesi vengono da lontano. Per oltre mezzo secolo la leggenda secondo cui esistono due Italie, la buona e la cattiva, e la buona generosa e onesta è a sinistra ha profonde radici. Si pretese - in sede storica ancora si pretende - che gli anni Cinquanta fossero stati offuscati dagli infami forchettoni democristiani - realizzatori, sia detto per inciso, del miracolo economico - cui si contrapponevano i puri e duri comunisti non turbati dai foraggiamenti di quegli organismi non proprio illibati e democratici che erano il Pcus e il Kgb. Pur quando incorreva in vistosi infortuni tangentisti il Pci rivendicava la sua diversità, ed Enrico Berlinguer - con una qualche sincerità - riconobbe a suo tempo che il suo partito si era abbuffato alla greppia del malaffare, aggiungendo tuttavia che i «compagni» avevano poco profittato, personalmente, di quel denaro. Non una grande attenuante, quand’anche fosse vera, ma è l’attenuante invocata per i comunisti, in virtù d’un pregiudizio favorevole, dai comunisti stessi.
La lunga storia di questo appannaggio usurpato dovrà pure un giorno finire. Non sta in piedi. Le vicende amministrative e contabili delle Regioni sono lì a dimostrarlo. L’opposizione ha fatto largo raccolto alle regionali, ma non per questo nelle Regioni s’è smesso di spendere allegramente, di assegnare poltrone, di elargire incarichi, di coprire affari. Tale e quale come prima, sarebbe da dire, se non fosse che pare sia peggio di prima. E quando il governo, preoccupato proprio dalle gestioni disinvolte, taglia i fondi per l’immane abbuffata, dalle Regioni di sinistra si alza un coro possente di proteste. Il rigore è una faccenda calcistica che tra i politici non ha molto corso.
Non siamo in un’Italia di caste, con i puri e gli impuri. Siamo nell’Italia di tutti. La smettano, a sinistra, di qualificarsi berlusconianamente «unti del signore», sono spesso e volentieri unti per contatti con il vizio dei favori, degli scambi, dei traffici. Chi ha seguito le vicende di Bankitalia e delle Opa e anti Opa che sono ora alla ribalta non ha notato alcuna riservatezza austera della sinistra: informata dei fatti, partecipe direttamente o indirettamente delle manovre, immersa in quei grandi giochi svolti - vedi le tante, le troppe intercettazioni - con un linguaggio piccolo piccolo.


I politici che sollevano la questione morale devono almeno avere il coraggio d’ammettere la propria presenza nel circo. Auspicano - almeno verbalmente - uno tsunami giustizialista? Benissimo. O malissimo. Ma ricordino che quando il flagello infuriasse le prime a cadere sarebbero le mura marce delle loro Regioni.

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