Leskov, il modo "giusto" di raccontare storie

Il grande scrittore russo fu un maestro dello "skaz", una forma di narrazione tra la favola e il "popolare"

Leskov, il modo "giusto" di raccontare storie

Il termine russo skaz, scrive Gleb Struve nella sua Storia della letteratura sovietica, sta a indicare «l'imitazione scrupolosa delle particolarità locali e individuali della lingua parlata». Indica altresì la predilezione per l'aneddoto puro e per le stilizzazioni folcloriche. Il gran maestro ottocentesco dello skaz fu Nikolaj Leskov (1831-95), del quale ora viene riproposto Il viaggiatore incantato (Neri Pozza, pagg. 202, euro 15; trad. Verdiana Neglia). Nel prefarlo, Paolo Nori, sulle orme del grande slavista italiano Ettore Lo Gatto, precisa che skaz sta tra il racconto e la fiaba, una narrazione cioè in cui l'elemento reale del rasskaz, ovvero del racconto, si fonda con quello fantastico della skazka, ovvero della fiaba. In sostanza, Leskov fu uno skazitel, cioè la versione ottocentesca del narratore dei canti epici russi conservatisi nella tradizione orale prima di essere raccolti in forma scritta. Nel caso di Leskov, quasi sempre la figura del narratore coincide con quella del pravednik, il giusto, come protagonista, dove per giusto non si intende l'asceta, tantomeno l'anacoreta, ma un uomo semplice e attivo che, con estrema naturalezza, porta in sé la santità.

Maxsim Gorkij definì Leskov «il mago della parola» e Lev Tolstoj «lo scrittore del futuro», e non ha tutti i torti Alberto Manguel quando osserva che senza di lui «non ci sarebbero stati Bulgakov, Cechov, ma nemmeno Garcìa Marquez e Cortàzar». Il contributo più rilevante sull'opera di Leskov lo diede comunque Walter Benjamin in un saggio poi raccolto in Angelus Novus, in cui però quella lettura di uno scrittore che in qualche modo anticipava la letteratura che sarebbe venuta dopo di lui, sveniva singolarmente rovesciata. «L'arte di narrare - sosteneva Benjamin - si avvia al tramonto (...) È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze». In breve la modernità e la società di massa avevano espulso «la narrazione dall'ambito del parlare vivo» modificandone di fatto la natura che in quanto tale implicava «apertamente o meno, un utile, un vantaggio. Tale utile può consistere una volta in una morale, un'altra in un'istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in una norma di vita: in ogni caso il narratore è persona di consiglio per chi lo ascolta».

Il primo segno del processo che porterà a questo declino, per Benjamin era stato il romanzo, per la sua alterità rispetto alla tradizione orale, fiaba, leggenda o novella che fosse, per il suo «tirarsi in disparte» rispetto al narratore. «Il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso che lo riguardano più davvicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri». La «nuova forma di comunicazione rappresentata dall'informazione» aveva poi fatto il resto, la novità, l'intellegibilità e l'essere plausibile, erano realtà «del tutto inconciliabili» allo spirito del racconto, perché «già la metà dell'arte di narrare, è lasciare libera la storia, nell'arte di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni». In ciò, rifletteva Benjamin, «Leskov era un maestro», perché lasciava al lettore la libertà di «interpretare le cose come preferisse». Un «maestro» dunque, che non a caso era «andato a scuola dagli antichi. Erodoto è il primo narratore».

Benjamin, naturalmente, era consapevole che «la trasformazione delle forme epiche va pensata in ritmi paragonabili a quelli della trasformazione che la superficie terrestre ha subito nel corso di migliaia di secoli». In sostanza, il romanzo c'era già nell'antichità, ma la sua fioritura coincide con la «borghesia sorgente» ed è allora che la narrazione «cominciò subito, lentamente, a regredire fra gli arcaismi». Per quanto si rifiutasse di vedere in questo processo «un fenomeno di decadenza, per non dire un fenomeno moderno», ma soltanto «un accompagnamento di forze produttive storiche, secolari» e «una nuova bellezza» che da esso scaturiva, è difficile non cogliervi un che di nostalgico e quella vena mistica che è un tratto caratteristico del suo pensiero. Per lui il narratore restava un maestro e un saggio, «l'uomo che potrebbe lasciare consumare fino in fondo il lucignolo della propria vita alla fiamma misurata del suo racconto. Di qui deriva l'incomparabile atmosfera che in Leskov circonda il narratore. Il narratore è la figura in cui il giusto incontra sé stesso».

Con ciò si torna al punto di partenza di Il viaggiatore incantato (1873), il cui protagonista, Ivan Fljagin, è, come ha notato Paolo Nori nella prefazione, «un giusto», anche se «una cosa singolare dei giusti di Leskov è il fatto che sono dei giusti che non sembran mica giusti». Infatti, Fljagin beve e si ubriaca, frequenta prostitute, ladri e mercanti imbroglioni, è rissoso, ha un delitto sulla coscienza...

Il fatto è che in Leskov, come nella tradizione letteraria russa, il confine fra i giusti e gli ingiusti è molto sottile. Era Tolstoj a dire che nella sua vita aveva conosciuto molti delinquenti e pochi santi, ma che i primi dicevano di essere dei santi e i secondi di essere dei delinquenti... E del resto, la chiesa ortodossa russa contempla il paradiso e l'inferno, ma non il purgatorio: non ci dono mezze misure, essere lì o qui è questione di sfumature. Quanto a Leskov, stando ancora a Benjamin, era un seguace delle teorie di Origène sulla apocatàstasi, ovvero l'ingresso di tutte le anime in paradiso, «la resurrezione non come trasfigurazione, ma come liberazione da un incantesimo».

Nato nel 1831 nel governatorato di Orel, morto nel 1985 a Pietroburgo, Leskov era stato sino ai trent'anni soprattutto il rappresentante per la Russia di una grande ditta inglese e come tale aveva viaggiato in lungo e in largo per il paese. Quando Gorkij lo definisce «lo scrittore più profondamente radicato nel popolo e completamente immune da ogni influsso estraneo» si riferisce proprio alla conoscenza di ciò che era la Russia del suo tempo, la sua vastità, il suo crogiuolo di razze, di sette religiose, di aristocrazia e di servitù. Come dirà lo stesso Leskov, quei viaggi gli permisero di raccogliere «un bagaglio che poi basta per la vita e non si può mettere insieme sulla prospettiva Nevskij, nei ristoranti e nei ministeri di Pietroburgo». Prima di darsi alla narrativa, aveva scritto una serie di opuscoli sulla classe operaia, sull'alcolismo, sulla disoccupazione, sui medici giudiziari. Ciò dà a Il viaggiatore incantato un sapore particolare dove sempre e comunque è la russità l'elemento di fondo, la nostalgia delle radici: «La steppa, al pari di una vita difficile, è senza fine, non esiste fondo alla profondità della tua angoscia... Guardi da qualche parte, e all'improvviso appare un monastero o una chiesa, e ti ricordi della tua terra di battesimo, e inizi a piangere».

Fljagin, il suo protagonista, è un gigante in abiti monastici, ma i cui modi non hanno nulla di clericale. Sul battello che attraversa il lago Ladoga, racconta a un gruppo di passeggeri la sua storia, le mille peripezie che l'hanno accompagnata, e la cui conclusione in un monastero sembra indicare il compimento di un destino, perché, morendo mentre lo partoriva, la madre l'aveva promesso a Dio, in quanto dono di Dio contro la sua sterilità. Ma anche il convento non è l'approdo finale: le voci di una possibile guerra lo hanno spinto a «togliersi il cappuccio e indossare l uniforme: voglio morire per il mio popolo».

Temi, dialoghi, descrizioni, accompagnano il lettore in un racconto dove il linguaggio

popolare si fa parte integrante della narrazione e dove alla bellezza è data una connotazione salvifica. «La bellezza è la perfezione della natura e di fronte a un simile rapimento un uomo può morire addirittura di gioia».

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