Lietta Manganelli: "Papà, partigiano in guerra con se stesso"

La figlia di Giorgio, l’autore di "Hilarotragoedia", racconta la lunga lotta del padre contro i propri incubi Più dura di quella che lo oppose ai tedeschi. La sua amara ironia e l’attrazione per il disagio psichico

Lietta Manganelli: "Papà, partigiano in guerra con se stesso"

«A proposito, mi viene in mente una cosa... Una volta mi si avvicina, mi cinge leggermente le spalle con un braccio (era sempre restio al contatto fisico) e mi dice: “Lo sai che sei fra i migliori personaggi di Dostoevskij?”».
Com’era spuntato, nella chiacchierata con Lietta, il nome dello scrittore russo? Ah sì, a proposito della scampata fucilazione. Perché anche il papà di Lietta Manganelli, Giorgio, scrittore di incubi e tormenti, come il grande Fëdor Michajlovic, rischiò di cadere sotto i colpi di un plotone d’esecuzione.

Come andò, signora?
«Beh, pochi lo sanno, ma papà era stato partigiano. O meglio, “patriota infiltrato”. Il tedesco lo conosceva bene... Insomma era lì a Roccabianca, provincia di Parma, il paese d’origine del nonno. La Linea Gotica stava cedendo, e la gente stava costruendo un ponte sul Po. Dunque lo prendono e, dopo un’abbondante razione di botte e qualche giorno al fresco, decidono di farlo fuori. Ma poi per fortuna qualcuno di loro si accorge che sarebbe stata la seconda rappresaglia. Troppo. La gente sarebbe insorta e addio ponte... Così la scampò».

Il partigiano Giorgio...
«Sì, il partigiano che poi a guerra finita, nel ’46, sposò una fascista (la poetessa Fausta Chiaruttini, mamma di Lietta,ndr)».
Nel fresco di stampa Ti ucciderò, mia capitale (Adelphi, pagg. 372, euro 25, a cura di Salvatore Silvano Nigro) sono riuniti molti scritti di Manganelli inediti e comunque mai raccolti in volume. E il dato che emerge su tutto è il baratro stilistico (e quindi contenutistico, trattandosi del più barocco e cesellante autore del nostro Novecento) che separa il pre dal post Ernst Bernhard. Manganelli entrò infatti in analisi dal seguace di Carl Gustav Jung, a Roma, prima dei trent’anni.

Quando, precisamente?
«Tra la fine ’59 e inizio del ’60».

E fu un’altra guerra. Questa volta con se stesso...
«I tentativi precedenti con l’analisi freudiana erano falliti del tutto. Papà aveva avuto una vita familiare pazzesca, con liti folli fra suo padre e sua madre, vittima di una nevrosi a carattere religioso: si rotolava a terra come un’ossessa. Era la classica yiddish mame, del tipo “mangia, se non mangi la mamma sta male”... In papà sorsero allora i sensi di colpa cosmici che non l’abbandoneranno mai e che gli faranno desiderare la morte. Ancora adesso mi chiedo come mai non si sia suicidato».

Ma con Bernhard le cose migliorarono un po’...
«Fu Cristina Campo a presentarglielo. Apriva le sedute con un lancio di dadi e leggeva i tarocchi. Mio padre era fortemente attratto dall’esoterismo, quelle furono le chiavi che aprirono la sua anima. Ci andava tre volte la settimana. Quando iniziò era messo malissimo. Pensi che aveva avuto persino un episodio di cecità durato dieci giorni, e due settimane di paralisi di tutta la parte sinistra del corpo. Ma lentamente si accese una piccola luce...».

E si aprì anche una valvola per liberare sulla pagina le angosce dello scrittore.
«Esatto. È vero che nei testi degli anni ’40 e ’50 di Ti ucciderò, mia capitale (quelli delle prime quattro sezioni del volume, ndr) sembra, a chi conosce il Manganelli da Hilarotragoedia in poi, di leggere un altro autore. Una prosa normale. O quasi».

Possiamo dire, allora, che alla scrittura narrativa degli inizi corrisponde un uomo tormentatissimo che reprime le paure e che, al contrario, alla ben nota scrittura vulcanica e lacerante corrisponde un uomo ancora irrisolto, ma almeno libero e consapevole di esserlo?
«Senza dubbio. Ma tenga conto che mio padre aveva... un debole per le persone con disagi psichici. Parlo di mia madre, ovviamente. Parlo di Alda Merini. E aveva paura della pazzia, la propria e l’altrui. Nel ’63 o ’64, quando Antonio Lo Cascio subentrò a Bernhard come suo analista, mi portò da lui e gli disse: “dalle un’occhiata”. Come fossi un’auto da revisionare».

In tema di revisione e controlli... Immagino che la caccia ai testi di quest’ultimo volume adelphiano sia stata lunga e difficile.
«Eccome. Lui non solo era disordinatissimo. Aveva anche l’abitudine a celare le cose. Come se pensasse “io lo metto qui e non lo faccio vedere a nessuno, se poi qualcuno lo troverà...”. Sto lavorando da cinque anni alla biografia di papà. Spero di chiudere entro quest’anno.

Ho deciso di non rimuovere la sua versione dei fatti nei casi, e non sono pochi, in cui è ben diversa dalla verità. Glielo devo. Perché per lui l’ufficio della scrittura è riassumibile in questa sua frase: “Chi dice la verità ha una vita sola, chi mente ne ha quante ne vuole”».

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