Torino. Lo scrittore svizzero Joël Dicker, attesissimo qui a Torino, arriva con circa due ore di ritardo. Quando vendi milioni di copie, però, hai sempre ragione, quindi puoi venire in macchina dalla Svizzera ignorando le istruzioni di Google Maps e senza sapere che c'è il Giro d'Italia, e la circolazione è bloccata. Ufficialmente lui parcheggia sul Lungopo, riva destra, e guada il fiume con le sue sole forze per raggiungere la sala dove i fans lo aspettano da molto tempo, ormai. Sul palco, spiega il fatto con qualche acrobazia metafisica che comprende il concetto che nel mondo virtuale delle applicazioni per il traffico non è compresa l'ipotesi che anche nelle città avvengano delle corse in bicicletta.
L'eroe omerico, invidiabilissimo in quanto giovane, bello, ricco, svizzero e di successo, viene per parlare del suo ultimo libro, Il caso Alaska Sanders (La nave di Teseo). In ogni caso, chiunque riesca a intervistarlo gli chiede i motivi di questo suo successo, e lui, nel rispondere, fa venire in mente quello che diceva di sé Luciano Bianciardi: «È successo».
A questo punto, per capirlo bisognerebbe interrogare il pubblico dei suoi lettori, un campione significativo dei quali è venuto a vederlo, a sentirlo, ad attenderlo nel caldo tropicale della kermesse lingottiana. Egli, per chi non lo sapesse (e incredibilmente c'è ancora qualcuno che non lo sa), ha scritto un romanzo giallo noir d'esordio che s'intitola La verità sul caso Harry Quebert (2012), vendutissimo, e quindi il successo gli è arrivato a venticinque anni, quindi doppio, perché se lo può godere con una prostata sanissima.
«Non ho piani», dice però. «Vivo immerso nella scrittura, otto ore al giorno per sei giorni alla settimana». Ma il settimo non riposa: va a correre. Lo fa per sfuggire all'alienazione da social, e perché così può imporsi sempre nuovi limiti da superare (chissà che non arrivi alla Maratona, ma per vincerla).
«Nei social tutti condividono tutto con tutti, ma nella letteratura, tu che scrivi, sei da solo», dice. Dopodiché, che cosa resta, a parte, ovviamente, il successo, per chi ne ha? «Passo otto ore al giorno a scrivere», ribadisce il giovane che ha sfornato cinque bestseller, nessuno al di sotto del mezzo migliaio di pagine. «Ogni volta spero in una soddisfazione, che però non è garantita. Per esempio, il giorno che è uscito il mio penultimo libro è stato lo stesso del blocco del mondo causa Covid. Un evento imprevedibile. Ma nessuno può togliermi il piacere di scriverlo, un libro». Comunque vada, sarà un successo, direbbe Piero Chiambretti.
Comunque, parliamo un po' di questo libro che l'autore è venuto a presentare, anche se non ce ne sarebbe stato bisogno, visto che è comunque in cima alle classifiche, come tutti gli altri suoi. È il terzo di una trilogia (ça va sans dire, fortunatissima) che ha per protagonista uno scrittore al quale le cose vanno molto bene, ma che si trova ad avere a che fare in questo caso con una ragazza sparita e morta ammazzata. Lo scrittore si chiama Marcus Goldman (che più o meno si può tradurre come «uomo d'oro», per coincidenza). Egli, come si legge in quarta di copertina «ha appena ottenuto un enorme successo con La verità sul caso Harry Quebert». Il titolo è lo stesso del primo romanzo di Dicker, che quindi, uno s'immagina, sta parlando di sé stesso in un groviglio metaromanzesco.
Come vengono tutte queste idee a Dicker? «Non lo so», spiega. «Non ho la minima idea di come nasce un mio libro. Prima di tutto c'è la voglia di scrivere un libro. Otto ore al giorno, sei giorni alla settimana. Immergersi in sé stessi. Io addirittura mi impongo di non scrivere. Da una parte sono eccitatissimo dall'idea di scrivere, dall'altra capisco che non devo fare troppo, come uno che ricomincia a mangiare dopo una dieta. Questo libro è nato tra la fine del primo e quello successivo, per proseguire il rapporto tra il personaggio di Marcus e il suo amico detective Perry Gahalowood. Poi ho inventato questa ragazza, l'ho fatta morire e mi sono chiesto: ma chi sarà stato? Poi ho dovuto imbastire una storia non gratuita, secondo i canoni del giallo, dove l'assassino non può essere uno che passa per caso a pagina 6. Tutto deve avere un senso».
Dopodiché Dicker ricorda che un certo personaggio del suo primo libro è invidioso del successo di questo scrittore chiamato Quebert. «Un invidioso ha un grosso vantaggio: sapere sempre quello che vuole», dice. «L'invidia è un grosso vantaggio. Come il dubbio, d'altronde. Ci stimola a costruire la nostra vita, salvo sbattere contro i nostri limiti e accettarli. Dubitate e siate gelosi». Qui viene molto applaudito.
«Non si può analizzare un successo in modo certo», dice sull'eco dell'applauso. «Si trovano molto più facilmente i motivi dell'insuccesso. Il primo, non so proprio per quali ragioni sia avvenuto. Può darsi che la prossima volta che verrò qui ci saranno soltanto tre persone. Io continuo a rimanere stupito e mi godo il momento. Se invece per un'ipotesi paradossale tutti adesso si alzassero e se ne andassero via, io smetterei addirittura di parlare».
Quindi dice che per lui nel racconto la tradizione orale è importantissima.
Lui si rilegge ad alta voce per capire se la prosa scorre abbastanza. Fatica molto, otto ore al giorno sei giorni la settimana, ma nella vita la difficoltà e il piacere di superarla stanno bene insieme. Lui ha successo, ma non sa perché.
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