La lunga rincorsa da Mandela all’uomo bionico

Erano le quattro e un quarto del pomeriggio, una domenica, l’11 febbraio 1990. L’auto che conduceva Nelson Mandela alla libertà filava e sfilava sulla strada di campagna che costeggia la prigione «Victor Vester» di Robben Island, un’isola al largo di Città del Capo. Un segnale per tutto il mondo. L’inizio di una nuova storia. Anche di sport. Da quel momento il mondo dello sport sudafricano cominciò a limare, limitare, sfumare la dizione dei memorandum e dei regolamenti delle sue associazioni sportive dove compariva la scritta «bianco» o «non bianco». Dicevano: è contrario alla tradizione e alle leggi del Paese permettere sport misto. Bianco-non bianco.
La liberazione di Mandela spinse il Cio a rivedere le sue posizioni. Juan Antonio Samaranch, allora presidente del Comitato olimpico, e Mandela chiusero il cerchio che voleva riunire lo sport sudafricano allo sport mondiale il 25 maggio 1992 a Losanna, sede del Cio, la casa olimpica. Pochi mesi prima dell’inizio dei Giochi di Barcellona. Dopo 32 anni il Sud Africa tornò alle Olimpiadi. A farsi guardare con altri occhi. Oggi dire Sud Africa significa pensare a qualche gioiello sportivo. Quel Jody Scheckter che fu pilota Ferrari, ma pure Robert Hunter, l’uomo a due ruote sulle strade del Tour de France, primo africano a vincere una tappa della grande corsa francese. Segni e segnali del tempo. Sennò che dire delle sue truppe calcistiche molto colorate e ai bianchi campioni del rugby, gli straordinari Springboks: quasi un controsenso della natura. Il nero, pur a fatica, si è fatto largo. La boxe ha lasciato segno con Dingain Thobela e Jacob «baby Jake» Matlala, nonostante Pierre Fourie, Pierre Coetzer, Jonny Du Plooy abbiano il fascino del bianco che, nel pugilato, ha sempre miglior valore.
Ma oggi lo sport sudafricano si è evoluto, badando meno al colore e più agli effetti pratici. I suoi nuotatori bianchi sono andati ad allenarsi negli Stati Uniti per divenire razzi d’acqua e vincere l’oro della 4x100 stile libero alle ultime Olimpiadi. Ronald Schoeman e Ryk Neethling sono i gemelli dell’acqua, entrati nel gotha del nuoto seguendo lo sviluppo di un mondo, un movimento che si è staccato dall’immagine tipica dello sport africano: straordinario e strapotente in alcune specialità, deficitario, anche per questione di razza, in altre.
L’atletica plasma campioni, ma si perde nella notte dei tempi (Olimpiadi di Londra 1908) il primo oro raccolto nei 100 metri da Reginald Walker, che andò in Inghilterra grazie alla raccolta fondi organizzata da un giornalista. Hestrie Cloete è stata una regina del salto in alto. Marcello Fiasconaro è cresciuto da quelle parti prima di venire a regalarci un po’di emozioni.

Ma oggi dici Sud Africa e pensi anche a Oscar Pistorius, personaggio che ha regalato il segnale, o il messaggio, più consistente e decisivo all’abbattimento di barriere, non sempre ristrette al «bianco-non bianco». Pistorius non ha le gambe, ma se le è costruite. Corre con trampoli al carbonio. Chiede alla vita la possibilità di esser considerato un uomo normale. Ha dietro di sé un Paese. Bianco e nero.

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