Dentro l'università dei videogame E non è per gioco

Tre anni di studio, 3 corsi, 280 studenti (per ora): qui nascono i professionisti che ci fanno divertire

Marco Lombardo

No, non è solo un (video) gioco. Soprattutto se si pensa a quanti soldi potrebbe spostare il mercato del genere in Italia, solo se l'Italia lo prendesse sul serio. In pratica per fare videogame bisogna studiare, non è solo una questione di bit; e la prova arriva facendo una visita all'Accademia Italiana di Videogiochi di Via Alessandria a Roma, praticamente la prima e unica università che forma gli esperti del settore. Quasi trecento allievi, tre corsi (graphic designer, programmatore e game designer), insegnanti che hanno già fatto carriera nel mondo. E un fondatore, Luca De Dominicis, che pensa in grande: «Quando molti genitori vedono i prezzi dei giochi, pensano che i figli siano matti. Ma non sanno il lavoro che c'è dietro: è l'ora di farlo conoscere».

In pratica: sviluppare un videogame è come produrre un film. E non è un caso che molti programmatori che studiano nell'intrattenimento ludico finiscono per essere chiamati dall'industria cinematografica e perfino dalle aziende che si convertono all'intelligenza artificiale: «Il nostro corso dura tre anni e i risultati sono che oltre l'80% dei grafici alla fine trova lavoro nel settore, mentre il 100% dei programmatori viene assunto, spesso anche prima di finire qui da noi. E soprattutto all'estero». Già, perché nella filiera di un videogame si parte da chi fa il concept dei personaggi su carta, si passa al grafico che lo mette sul computer e si finisce nelle mani del programmatore, che lavora in coppia con il game designer per dare vita all'avventura. Tutti mestieri che all'Aiv si imparano a fronte di una retta di 5000 euro l'anno, «perché siamo per ora un ente privato - spiega De Dominicis -, ma siamo in trattative con il Miur per avere il riconoscimento del ministero e poter assegnare borse di studio: è il primo obbiettivo del 2018. Intanto veniamo in contro agli studenti con piani di rateizzazione». Un investimento in fondo, visto che dà risultati praticamente certi. Anche se purtroppo in Italia la materia è ancora presa - questa sì - per un gioco: «Noi siamo il Paese dei tecnici, ma col marketing siamo indietro. Abbiamo perso il treno dell'informatica e ci dimentichiamo che il primo processore, il 4004 di Intel, fu inventato a Ivrea. O che Steve Jobs offrì il 50 per cento di Apple a De Benedetti, che però rifiutò. Appunto».

Insomma: che fare per vincere la partita? «Un accordo tra scienze: marketing, economia, i programmatori. Una università come la Bocconi dovrebbe formare economisti di videogame da mandare a fare degli stage in aziende come Activision, Sony e Ubisoft. A girare il mondo per portare il sapere in Italia. D'altronde l'inventore di Candy Crush è un italiano che ha studiato alla Luiss, Riccardo Zacconi: ha fondato la King a Londra e poi l'ha rivenduta a Activision per 5,9 miliardi di Dollari. Perché non si poteva farlo qui?». E allora: all'Aiv, per esempio, insegna Roberto De Joris, un programmatore che ha dato vita a Instagram, Booking e Reddit. Eppure nessuno lo sa. E all'Aiv nascerà una piccola casa di produzione, per passare dallo studio ai fatti: «Le racconto questa: ci sono nove passaggi nella produzione di un videogame e in quelli tecnici siamo tra i primi. Poi arriva la parte difficile, quella che si chiama Quality Assurance: la Blizzard, una delle software house più famose al mondo, ha buttato via due anni e mezzo di lavoro su Ghost perché il prodotto non rispettava i canoni dell'azienda. È anche su questo che dobbiamo lavorare».

Tutto questo si impara in Accademia, nei corridoi della quale compare anche qualche ragazza aspirante grafica. Come Eleonora, che si era scritta a Informatica «ma ho scoperto che mi mancava qualcosa. Qui ho trovato il posto giusto per dare un'anima alla mia passione». Mettendo in gioco il proprio futuro. Ma sul serio.

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