Magna magna (ma con la sinistra)

Un libro denuncia: «Il bertinottismo è una sottocasta al servizio di un governo imperialista»

Diliberto: forchettone! Pecoraro Scanio: forchettone! Giordano: forchettone! Eccoli qui, i membri della nuova «tribù dei Forchettoni» disposta a buttare a mare decenni di ideologia e migliaia di tomi e di movimentisti sinceri pur di tenersi la poltrona, preferibilmente se di governo. La critica arriva dalla sinistra della sinistra e qui la storia cambia di brutto. Detto a un politico, «forchettone» è già una brutta parola. Detto a un politico di sinistra, e di quella sinistra che si bea d’essere «radicale», è una perfida nemesi.
Ma andiamo per ordine. «Forchettone» è un epiteto antico, inventato mezzo secolo fa contro i democristiani e via via usato contro le classi di governo ogni volta che si volevano aggredire, scrive Sebastiano Messina, «tutti i difetti untuosi di chi fa politica per arricchirsi, ingrassarsi, rimpinzarsi di potere»: prima la Dc, poi i socialisti, poi tutto il pentapartito.
Fu l’intuizione mefistofelica partorita da Giancarlo Pajetta al mitico terzo piano di Botteghe Oscure, quello della Propaganda, a rendere popolare il termine. La forchetta vicino allo scudo crociato compare a un mese dalle elezioni del 1953, quelle della legge-truffa: si volevano prendere tutto il potere, i democristiani del magna magna, con il minimo sforzo. La Dc alla fine non ottenne il premio di maggioranza ma l’epiteto resistette. Tant’è che anche in Parlamento, quando voleva zittire i diccì, Pajetta urlava: «Giù le forchette. Riposo!». La storia dei «forchettoni» è una creazione comunista, insomma.
All’epoca del primo centrosinistra, Paolo Sylos Labini, in un commento a un documento socialista, chiosava: «Molto più che dalle teorie di Carlo Marx i partiti di sinistra, che finora sono stati all’opposizione, hanno tratto la loro forza dal proporsi come antitesi dei “forchettoni”. Guai a noi e guai a loro, se continuassero a tuonare con le parole, ma cominciassero a tirar via coi fatti». Fu preveggente, perché dagli anni Settanta fu il Psi a essere preso di mira più violentemente dai moralizzatori dell’anti-forchettonismo. Da destra, per esempio, quando la band degli Amici del Vento cantava nel ’76: «Partito, partito, partito socialista/ la meglio garanzia del mondo antifascista/ Forchette, forchette, forchette nazionali/ per arraffar miliardi senza pene fiscali». Ed erano applausoni. Dodici anni dopo era stato Gianfranco Fini, neosegretario del Msi, a tuonare in un’intervista: «Il Psi è un’accolita di forchettoni». Tanto per ridere, invece, gli attivisti gastronomici di Slow Food ai loro esordi si definivano «neo-forchettoni».
L’accoppiata forchetta-potere ha resistito al passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. C’è Gianni Prandini, l’ex ministro dei Lavori pubblici, periodicamente allestiva al ristorante bresciano «Il forchettone» tavolate da mille posti, e c’è l’incipit di Gianfranco Rotondi: «Ah, i democristiani sono bravissimi con le forchette». L’idea di una politica adiposa, crapulona e famelica ha continuato a far presa. Così il forchettonismo ha attraversato Tangentopoli, quando l’Europeo dedicava ai socialisti un libro di barzellette e uno dei capitoli della compilation era proprio «Il ritorno dei forchettoni». È arrivato su La Padania, nel 2004, durante la polemica contro i «preti forchettoni» sulla costruzione di parcheggi sotto alcune chiese romane.
E la sinistra-sinistra? Fino a ora era rimasta fuori dal circolo della forchetta. Sì, ricorda Filippo Ceccarelli ne Lo stomaco della Repubblica (Longanesi, 2000), si rideva per «falce, martello e tortello», ovvero per il comunismo nella gaudente Bologna: ma erano riferimenti bonari a un modello di consenso che aveva alti tanto il colesterolo quanto le percentuali per il Pci. E ricordava singhiozzando il sindaco Dozza vincere contro l’esangue Dossetti grazie alla sua fama di sbranatore di «taglidèl».
E ora, ecco che ti piomba in libreria un pamphlet velenosissimo, I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale» (Massari editore, pagg. 320, euro 13), opera di un gruppetto che fa capo alla Fondazione «Che Guevara» e, accanto ai libri, imbottiglia «vini da leggere» come il «Barricadero Blanco» dedicato al Che, il «Rosè Luxemburg» o lo «Sbattezzo di... vino» in memoria di Giordano Bruno. Gente tosta e alcol rosso vivo, dunque.
Nel libro si sostiene la tesi - violentissima - che la combriccola di Rifondazione comunista, Comunisti italiani e Verdi si sia trasformata celermente in una sottocasta che «opera al servizio di un governo borghese-imperialistico \ aiutando questo governo a combattere le sue guerre e ad applicare il suo programma. Lo fa, però, continuando a reclamarsi “comunista” ed “ecopacifista”». Il punto di non ritorno dei «forchettoni rossi» è il voto favorevole alla missione in Afghanistan nel luglio 2006. È l’ultimo atto di una storia che parte con la guerra del Kossovo del 1999, quando Cossutta e i Verdi rimangono al governo doppiogiocando con i movimenti pacifisti, passa per il referendum sull’articolo 18, voluto da Bertinotti tanto per gettare un po’ di fumo negli occhi dei lavoratori anche se «sapeva benissimo che non avrebbe mai potuto vincere», e arriva all’insediamento del governo Prodi. Senza dimenticare la «messinscena mediatica» della conversione bertinottiana alla non-violenza, allestita in fretta e furia per accreditarsi come alleato affidabile di governo e, soprattutto, per paura che i pacifisti passassero dall’opposizione alla guerra irachena all’appoggio esplicito alla «resistenza».
Oggi la «sinistra radicale», a leggere I Forchettoni rossi, è nient’altro che un «blocco burocratico» di politici di professione il cui unico interesse è «sopravvivere e perpetuarsi», tenuti al guinzaglio dal Gran Capitale Imperialista che li impiega come truppe-cuscinetto nei conflitti più esplosivi, dalla guerra in Irak alle vertenze sociali ai no-Tav, ma gli garantisce «ruolo, reddito, e immagine». È il rielezionismo, fase suprema del forchettonismo.
E se è Rifondazione comunista «la principale forza motrice nel processo di formazione della nuova sottocasta», Fausto Bertinotti, appellato «Grande capo rosso Lingua biforcuta», il movimentista in fresco lana, viene accusato impietosamente di aver favorito un «processo di santificazione» della sua persona e aver cooptato tutta la classe dirigente mediante l’eliminazione chirurgica del dissenso. Gergalità a parte, è gustosissima la ricostruzione minuziosa che il curatore Roberto Massari fa delle giravolte ideologiche del bertinottismo, comitato dopo comitato, congresso dopo congresso, che è tutto un fiorire di «incomprensibilità sintattica», «inganni linguistici», «confusione ideologica», «discorsi demagogici», «turismo politico». Si lascia Prodi e si va all’opposizione? Si è aperto «un nuovo ciclo politico».
E Marco Rizzo? E Rina Gagliardi? E Paolo Cento? Eccetera? Tutti Forchettoni e portavoce della «grande menzogna», che «pur di far parte del governo devono mentire», che dichiarano di essere comunisti o «pacifinti» ma in realtà «votano e aiutano ad applicare un programma che prevede l’ulteriore sviluppo del capitalismo, il rafforzamento dell’imperialismo italiano» e dulcis in fundo, «la fedeltà incondizionata agli Usa e alle sue guerre».
E di questa postura ideologica sghemba, riteniamo, il capolavoro politico rimane la manifestazione dello scorso 20 ottobre, «contro» la legge Biagi ma «a favore» del governo Prodi che però non tocca la legge Biagi.

Capolavori che un pezzo di sinistra, che rimugina e argomenta, non capisce più. E forse si chiede se la rivoluzione, che certo non è un pranzo di gala come voleva il Grande Timoniere, doveva proprio finire in una cena di lavoro da Fortunato al Pantheon.

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