Il magnifico trio di Keith Jarrett maschera la routine dietro la classe

Un sodalizio che iniziò 25 anni fa accolto dai fan con troppo entusiasmo

da Torino

Non sembra, ma sono trascorsi 25 anni da quando Keith Jarrett fondò un trio con Gary Peacock contrabbasso e Jack Dejohnette batteria. L’intento era di sostituire l’analogo trio di Bill Evans, scomparso tre anni prima lasciando un vuoto a molti apparso incolmabile. Eppure i pareri degli esperti non furono del tutto positivi. I protagonisti non erano giovanissimi: Peacock classe 1935, Dejohnette 1942, Jarrett 1945. Da più di dieci anni Jarrett aveva intrapreso concerti e dischi di pianoforte solo (il primo stupendo cd è Facing You, il più famoso The Koln Concert). Ed era intenzionato a continuare, come fece con temerarie improvvisazioni di un’ora e più che rischiarono di rovinargli la salute. Aveva scelto Peacock perché lo ammirava da sempre, e Dejohnette perché con lui aveva lavorato nei gruppi di Charles Lloyd e di Miles Davis.
Il trio nondimeno ha funzionato bene a lungo per la bravura e l’affiatamento dei sodali. Nel 1995, il suo primo concerto all’Arena di Verona fu di una bellezza storica. Forse, se il pianista si fosse dedicato di più al trio piuttosto che agli exploit in solo, avrebbe ridotto i suoi guai, fra cui un grave forfeit al Teatro alla Scala. Poi, pressappoco in coincidenza con il nuovo millennio, gli osservatori più attenti hanno cominciato a notare fra i magnifici tre la lenta ma costante ascesa della routine in luogo della brillante creatività precedente. Era inevitabile. È accaduto in passato ai Jazz Messengers di Art Blakey e al Modern Jazz Quartet, per citare due gruppi longevi, e lo si è percepito nettamente al Teatro Regio di Torino durante il primo dei tre concerti italiani estivi.
La performance suggerisce un bilancio, ora che l’avvenire di Jarrett è dietro le spalle. Il superdivo ha dettato uno stile pianistico nuovo e molto imitato fino agli anni Ottanta. Poi si è adagiato sulle sue doti di fraseggio e di verticalizzazione armonica, un po’ sminuite dalla bellezza non eccelsa del tocco e del suono e – nei concerti – dalla sua postura sullo strumento ormai scontata, stucchevole e inelegante. Il trio tradisce l’età nell’affievolirsi dell’interplay, ovvero della pari importanza dei tre strumenti. Adesso c’è la prevalenza di un pregevole pianista accompagnato da un contrabbasso e da una batteria (eccellenti, sia chiaro) ai quali il leader lascia ampi spazi solistici. I brani sono tutti strutturati in modo analogo, al punto che sembra di riconoscere anche i pochi ignoti.

In 80 minuti senza soluzione di continuità si sono ascoltati fra gli altri Tonight, As Time Goes By, Somewhere, Poinciana, When I Fall In Love. Pubblico non foltissimo ma applausi clamorosi, perfino troppo, come pare sia dovuto a un personaggio mediatico strapagato e maleducato.

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