Le mamme di Gaudenzi proteggono il Novecento

In tempi di avanguardie, le sue "Maternità" rivalutano un sentimento antico. Anzi, eterno

Le mamme di Gaudenzi proteggono il Novecento

Nella distanza fisica, con musei, chiese e mostre chiusi, parlare di opere d'arte sembra inutile o astrattamente consolatorio. Alcuni di noi hanno il privilegio di averle sulle pareti di casa, e non come ornamento, ma come testimonianza di scelte e orientamenti critici. Soprattutto per il Novecento, abbiamo vissuto la dittatura di alcuni artisti obbligatori, alcuni certamente notevoli, ma così ingombranti da non lasciare spazio a molti che hanno percorso strade diverse, difendendo la pittura contro facili sperimentazioni e provocazioni. Ogni tanto qualche maestro riemerge, com'è toccato ad Adolfo Wildt, ma ancora sommerse sono personalità di primo piano che non hanno scelto la strada delle avanguardie: penso a Giulio Aristide Sartorio, ad Armando Spadini, a Mario Cavaglieri, a Giovanni Battista Crema, agli esponenti della scuola romana come Nino Bertoletti, Pasquarosa, Alberto Ziveri. Ognuno di loro ha espresso una poetica compiuta, di non marginale interesse. Da anni penso a come ricomporre una diversa storia dell'arte del Novecento, che restituisca a ognuno il suo merito distinto. Anche per questo, per una nuova impresa progettata dall'Istituto Treccani, ho proposto al curatore Vincenzo Trione alcune voci sui dimenticati del Novecento, i diversi, i solitari, gli isolati. In una parola, gli invisibili.

Voglio parlare oggi di uno di loro, pervicacemente ignorato, eppure grande per invenzione e straordinario magistero tecnico: Pietro Gaudenzi. In casa, a Roma, ho due sue diverse Maternità, entrambe alte e particolarmente originali. Il tema è raro, difficile, e, specialmente nel Novecento, deve scendere dal soggetto religioso della Madonna con il bambino a quello umano della madre con il figlio. Quanto fu frequente nella pittura moderna, da Duccio di Buoninsegna fino a Previati , questo soggetto, tanto è rarefatto e quasi inesistente nella pittura del Novecento, come se gli artisti si vergognassero di affrontarlo. Prima di Gaudenzi, registriamo soltanto la Maternità di Gino Severini, del 1916. Poi il buio. Inutile cercare nell'opera di Morandi, de Chirico, Sironi, De Pisis, Carrà, Boccioni, Balla. Gli affetti sembrano banditi. Non per caso il soggetto sarà rappresentato da altri artisti dimenticati, come Sartorio e Spadini. Ma, per gli inevitabili, è, semplicemente, evitabile. Pietro Gaudenzi dipinge, con la sue maternità, due teoremi, senza imbarazzo e con una grandissima attenzione alla forma, cercando di non ripetere schemi tradizionali. Lo guidano Giotto e Piero della Francesca. È quello che io vedo in questi dipinti.

Ma seguiamo la strada del pittore. Gaudenzi nasce a Genova nel 1880. A Ferrara conservo un paesaggio degli inizi del secolo, nel quale al gusto simbolista del suo primo maestro Felice Del Santo si accompagna una sensibilità per la materia che indica la sua attenzione per Antonio Mancini, uno dei maestri che, arrivato a Roma nel 1904, osserva con più attenzione. Tra essi, naturalmente, Sartorio e Spadini, ma anche Michetti e Carena. Roma per Gaudenzi significa anche Anticoli Corrado, il celebre paese meta di artisti da ogni parte d'Italia, anche per la leggenda delle sue belle modelle. E a Roma Gaudenzi conosce Candida Toppi, figlia di un noto modello di Anticoli Corrado e modella a sua volta. Dal matrimonio, celebrato nel 1909, nacquero Leonardo e Ruggero, morti bambini, Enrico, che avrebbe seguito le orme paterne, e Giuliana. I temi familiari - ritratti della moglie, dei figli e più d'una Maternità - furono frequenti già nella produzione dell'artista negli anni Dieci. L'esperienza della vita, i sentimenti, la verità delle emozioni prevalgono sul formalismo dell'avanguardia. Sono gli anni dei manifesti futuristi. Nel 1911 un suo dipinto, I priori, presentato alla Esposizione internazionale di Roma, è acquistato dal comune per la Galleria Civica d'Arte Moderna (naturalmente non esposto). Nel 1916 partecipa all'esposizione della Società amatori e cultori di Roma con il dipinto Affetti (Roma, Galleria comunale d'arte moderna e contemporanea, non esposto). Le opere di questo tempo, tutte sommerse, hanno una pittura densa, drammatica, dai grossi spessori cromatici. Nel corso degli anni Venti, Gaudenzi, rimasto vedovo, è a Milano, dove dipinge notevoli ritratti fra i quali quelli di Wally Toscanini, della Signora Albanese, del maresciallo Enrico Caviglia, con forti chiaroscuri, mentre i pastelli e i disegni, come Il giglio, Luce, Purità, rivelano una sintesi luminosa di forma e colore, nella consapevole ripresa della tradizione classica italiana.

Interessante che la fase successiva alla ricerca di Gaudenzi coincida con il matrimonio con la cognata, Augusta Toppi, da cui nacquero Jacopo e Maria Candida (ispiratrice di molte opere tarde). Così Gaudenzi ristabilisce il legame con Anticoli Corrado, dove si trasferisce, contribuendo alla costituzione della locale Galleria d'arte moderna (1935). Partecipa con Modelli di Anticoli alla seconda Quadriennale romana. Capolavoro di questo tempo è il trittico Il grano del 1940 per il premio Cremona, il cui classicismo rurale rivela un eccezionale rigore e una sorprendente originalità. È anche il tempo degli affreschi per il Castello del Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi, di cui i cartoni sopravvissuti sono stati recentemente studiati da Marco Fabio Apolloni: «Si tratta di scene di genere o figure ritratte dall'artista nello svolgimento di umili occupazioni quotidiane nelle strade e nelle campagne di Anticoli Corrado. Guardando la mola di Anticoli, la Semina, la Mietitura, le donne che portano il pane su vassoi o allineato su un'asse portata in equilibrio sul capo, la splendida donna con la pagnotta infiorata, o la giovane con un fascio di spighe, non si può non ricordare la retorica della Battaglia del Grano mussoliniana, ma le figure di Gaudenzi - che pure sul tema vincerà anche, con un suo trittico dipinto, echeggiante gli affreschi di Rodi, il premio Cremona nel 1940 - sembrano imperturbabili, nella fissità delle loro consuetudini millenarie ed immutabili, all'enfasi trionfalistica del momento. Sono queste opere di un artista schivo, taciturno creatore di un mondo e di un'umanità incantata in cui i modelli contadini, da lui ritratti dal vero nel paese di Anticoli Corrado, che egli elesse ad Arcadia personale, sono trasfigurati per grazia poetica, in modo che l'umano e il divino si confondano: così in Gaudenzi una Sacra Famiglia diventa una famiglia, una Visitazione una visita tra comari, uno Sposalizio un semplice banchetto di nozze, senza che il senso del sacro venga meno, ma senza che questo tradisca il senso del vero. È la bellezza dell'umiltà della leggenda cristiana, tante volte meravigliosamente vestita in pittura, che Gaudenzi ha saputo riportare come declinazione purista del Novecento italiano, con semplicità e finezza sincere».

Gli affreschi risultano perduti e assai labili sono le speranze di ritrovarli sotto lo strato bianco di calce che copre le pareti delle due sale al secondo piano del Castello che ospitavano il lavoro di Gaudenzi. Attualmente le pareti mostrano solo nudi blocchi di arenaria. Il premio a Cremona e gli affreschi di Rodi sono la testimonianza estrema dell'arte celebrativa del Ventennio, ma con una verità e un'autenticità ben lontane dall'arte di propaganda. L'impegno di Gaudenzi durante il Fascismo lo condannò all'esclusione dalle mostre ufficiali del dopoguerra. E così il pittore si rifugiò nella scuola Vaticana del mosaico, di cui fu direttore, applicandosi alla sempre più negletta committenza religiosa, cui egli poteva garantire il suo ossequio per la tradizione.

Nei suoi tardi anni (mori nel 1955) realizzò mosaici per il duomo di Messina, per la cripta di quello di Ascoli Piceno, per le absidi della Regina Apostolorum e della chiesa del Collegio americano di Roma; e dipinse affreschi per la chiesa di Santa Vittoria ad Anticoli Corrado e per la chiesa di Castel Porziano. L'essenza della sua arte si rispecchia nelle maternità che io ho ora davanti, e di cui fu modella la moglie. Della prima l'ispirazione è giottesca, con la potenza del corpo della madre che cinge, come in un momento di distrazione, il bambino mentre porta una ciotola con il latte, celando il volto, con una intuizione formale di straordinaria sintesi: un'invenzione unica. Nell'altra maternità si rivede il volto dolcissimo della madre che stringe il bambino in fasce come un fagotto.

Sul fondo una prospettiva di case, di taglio squisitamente quattrocentesco, dove riecheggiano gli spazi incorrotti di Filippo Lippi e di Piero della Francesca.

In entrambi i casi né citazionismo né accademia, ma un risalire spontaneo alla originalità delle forme, alla corrispondenza fra emozione e composizione: ciò che è proprio dell'arte vera.

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