Mancuso lascia Segrate e corre tra le braccia di Fazi

A margine del tormentone estivo «Mondadori, esco o non esco?», qualcuno potrà essersi fatto una cattiva opinione, su Vito Mancuso, il teologo che l’ha (ri)lanciato. A quel qualcuno, magari, sarà tornata in mente la celebre quartina del maestro Fabrizio De Andrè che dice: «Si sa che la gente dà buoni consigli/ sentendosi come Gesù nel tempio,/ si sa che la gente dà buoni consigli/ se non può più dare cattivo esempio». Ebbene, quel qualcuno sbagliava: ha pensato male e ha fatto peccato, ma non ci ha azzeccato. Perché, alla fine, Mancuso, come il Big Ben di Portobello, ha detto «Stop». E se ne va.
Ieri ha salutato tutti con un’articolessa partita dalla prima pagina della Repubblica e arrivata sulle rassegne stampa dei suoi interlocutori, amici o nemici che siano. Articolessa che si chiude parafrasando l’antico motto del neoplatonico Ammonio Sacca: «Amicus Plato, sed magis amica veritas». Al posto di Platone ci sono Eugenio Scalfari et alia, al posto della veritas c’è la iustitia... Insomma, dice Mancuso con la malinconia di un Bobby Solo (e qui siamo noi a parafrasare lui), «Non c’è più niente da fare/ è stato bello sognare», la legge ad aziendam non posso accettare. L’autore di Disputa su Dio e dintorni (Mondadori) chiude da par suo la disputa su Berlusca e dintorni affermando d’aver provato l’ebbrezza d’essere additato come «coscienza profetica» e «povero ingenuo», «eroe coraggioso» e «ipocrita opportunista». E dopo aver timbrato doverosamente il cartellino ringraziando Barbapapà «le cui parole affettuose ricambio con gratitudine», rompe gli indugi, forte anche (ma questa è un’illazione maligna, quindi diabolica) di un bel contratto con Fazi. L’autore di Per l’alto mare aperto (Einaudi), cioè il suddetto Barbapapà, da vecchio lupo per l’appunto di mare, al compagno che annaspava fra le procelle della propria coscienza non aveva teso il virile braccio salvifico, limitandosi a fargli notare, anzi, urlandoglielo dalla prua, che il problema della Moby Dick di Segrate «si combatte politicamente». D’accordo, ribatte Mancuso ingoiando amari calici d’acqua salata, «ma mi permetto di replicare che la politica, come l’essere di Aristotele, “si dice in molti modi”, non tutti riservati ai politici di professione». Capito, capitano?
Dopo averci ricordato, con una frase ellitticamente gesuitica, d’essere fra gli «autori da primi posti della classifica vendite», il teologo, che coglie l’occasione d’annunciare in cauda, pur senza venenum, l’uscita entro dicembre da Einaudi di un volume collettaneo cui ha partecipato, si chiede retoricamente: «l’autore ha il dovere di verificare la correttezza etica (e non solo giuridica) del proprio editore?», e «l’autore ha il dovere di chiedersi quali investimenti sostiene con il profitto da lui generato?». E alfine risponde «sì» a entrambi i quesiti. Soprattutto, puntualizza, se l’autore in questione è un «intellettuale», non un pirla qualsiasi, ma uno che svolge «un compito abbastanza delicato verso la società». Mancuso non vuol atteggiarsi a vessillifero della libertà, e sa che l’altra massima, «primum vivere, deinde philosophari», cioè prima la pagnotta, poi le discussioni, è un evergreen.

Quindi loda chi, «potendo permetterselo» (eticamente o economicamente?) non contribuisce ad alimentare il Leviatano del conflitto d’interessi, «la madre di tutti i problemi». Così può salutare Platone-Scalfari e compagnia col cuore in pace. Adesso si tratta di vedere se lo lasceranno solo come Bobby Solo.

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