Migliaia allo stadio per la lapidazione di un’adultera

Orrore in Somalia. I miliziani delle Corti islamiche sparano contro i parenti che protestano e uccidono un bambino

Per tre volte l’hanno tirata fuori dalla fossa, per tre volte l’hanno ricalata nelle zolle e sasso dopo sasso ne han spento l’ultimo respiro. In Somalia sono tornate le Corti islamiche, è tornato l’orrore fondamentalista, è tornato il supplizio della lapidazione. A fermarlo non bastano la furia dei parenti, non basta il disgusto degli spettatori, la rivolta della folla. Pur di eseguire la pena infame le guardie integraliste non esitano a sparare sulla calca, a uccidere un bimbo, a ferire una decina di civili. Succede nel porto di Chisimaio, succede lunedì sera in uno stadio gremito. Lei, la condannata, arriva sul cassone d’un furgoncino, un velo verde la copre da testa a piedi, una maschera nera le nasconde il volto. «Ha confessato, riconosce il peccato, accetta la sentenza», raccontano i giostrai dell’orrore alla folla in attesa. Sono tornati da poco. Hanno riconquistato il porto con la forza delle armi, sperano di riportar indietro la storia e di vendicarsi del governo che, due anni fa, li ricacciò in mare con l’aiuto di Stati Uniti ed esercito etiope. Sperano di tornare a Mogadiscio e di reimporre all’intero paese quella legge islamica che per tutta la seconda metà del 2006 trasformò in consuetudine il raccapriccio: esecuzioni sommarie, lapidazioni e taglio di mani e piedi. Su quel furgone Asha Ibrahimn Duhulov urla come un animale ferito, si dimena, tenta un’ultima disperata resistenza. Ha solo 23 anni, ma conosce il proprio destino, ha sentito pronunciare la sentenza, sa di dover morire sotto una pioggia di pietre. Ignora di esser una vittima designata, un capro espiatorio, un simbolo del rinato ordine integralista. L’hanno accusata d’adulterio, ma per i giudici delle Corti islamiche è solo un pretesto umano, un’occasione per esibire il ritorno al rigore. La colpa poco importa, contano l’efferatezza della pena, l’applicazione alla lettera di un supposto codice islamico, la forza della paura e dell’esempio. Qualcuno non ci sta. Qualcuno nella piazza urla, si dispera. «Dove sono i quattro testimoni previsti dalla legge islamica, dov’è l’uomo con cui ha tradito», urla una sorella. La calca ulula, ondeggia, avanza. Le guardie arretrano, si stringono intorno a quel prezioso capro espiatorio, alzano i kalashnikov, sparano ad altezza d’uomo. La moltitudine ondeggia, esita, arretra, negli spazi convenuti. Davanti al patibolo resta il corpicino d’un bimbo dilaniato dai colpi. Lo portano via in fretta, allontanano i feriti, riportano in scena lo spettacolo promesso. La fossa è gia pronta, la terra cade a badilate, imprigiona Asha fino alle spalle. Poi s’inizia. I sassi la colpiscono al volto, alla nuca, alle tempie, ne spengono pianto e urla. Sembra finita. La tirano fuori, ma per l’arbitro del gioco infame è ancora presto. Il corpo esanime ridiscende nella terra, poi altri sassi, altre ferite, altro sangue sulle zolle. Per altre due volte la ritirano fuori e il giudice impone nuove pietre. Alla fine la morte arriva.

Allora il giudice spietato si rivolge alla folla, ribadisce l’ esemplare legittimità dell’esecuzione, si scusa per l’inconveniente del bimbo ucciso. «Se una guardia ha sbagliato - promette - faremo giustizia anche per quello».

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