Fu Fabio Capello, nel ’97, a reclamarne l’arrivo. «Dopo Figo, non c’è nessun altro forte come Leonardo» garantì il precettore di Pieris nella stagione del “ricominciamo”, la dispendiosa rifondazione rossonera fallita miseramente. Ebbe ragione molto presto. In pochi anni il brasiliano-gentiluomo lasciò nel Milan una impronta fenomenale realizzando alla fine un centinaio di presenze (96 per chi ama la precisione dei numeri) arricchite da 22 sigilli: decisivo il contributo nell’anno del centenario, con lo scudetto firmato Zaccheroni, che si piegò nel finale a realizzare l’idea del presidente rimpiazzando Leonardo, nel frattempo con la batteria scarica, con Boban. Adesso che Leonardo sta per arrivare in punta di piedi sulla panchina del Milan, Silvio Berlusconi ne ha anticipato l’identikit con un tratto riconoscibilissimo ai più: «Vedo un altro Sacchi o un altro Capello».
Appunto, un altro Capello: nomen omen. E nei fatti Leonardo il poliglotta, parla correttamente italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese e «un po’ di giapponese» l’appendice vezzosa, cittadino italiano dal 2008, è il secondo esponente della generazione degli allenatori fatti in casa dal Milan berlusconiano. Don Fabio, dopo il debutto con la primavera e il brevissimo intermezzo per rimpiazzare Liedholm, realizzò il suo apprendistato negli uffici della polisportiva Mediolanum, al fianco di Giancarlo Foscale, cugino del presidente e all’epoca responsabile amministrativo del gruppo, studiò televisione con la redazione sportiva (sono datati all’epoca i suoi dibattiti polemici con Maurizio Pistocchi) e andò in giro per l’Europa a documentarsi in fatto di sistemi di allenamento. Leonardo può dispiegare il suo carisma presso brasiliani e non solo, oltre che la sua esperienza sul campo di manager impiegato da Galliani nelle trattative più delicate. Da calciatore, con la Seleçao vinse il mondiale del ’94, soffiandolo, ai rigori proprio all’Italia di Arrigo Sacchi e dei molti milanisti che ne costituirono l’ossatura: senza saperlo, fu un altro incrocio del destino. A Milano, cominciò la sua carriera da dirigente rossonero, interrotta brevemente da un’esperienza tv con Sky, come segretario generale della fondazione Milan (costruì il nuovo pronto soccorso dell’ospedale per bambini «Buzzi»), quindi fu trasferito agli affari di calcio-mercato con il Sud America. Le sue missioni più delicate si conclusero con altrettanti successi: fu lui a convincere la famiglia di Kakà nell’estate del 2003 a recidere il cordone con il San Paolo e a mettere da parte le sirene inglesi del Chelsea, fu sempre lui a intervenire per convincere la famiglia di Pato e poi Thiago Silva a «tradire» l’Inter per «vestire la stessa maglia di Kakà». Fu l’unico, una sera di gennaio, sotto la pioggia, a essere accolto in casa, da Riccardino nella notte in cui saltò l’affare col City. Con Ronaldinho ha sempre dialogato mediando tra il Gaucho e Ancelotti, con lealtà assoluta.
Si è iscritto al corso allenatori (attualmente ha il patentino di 2ª categoria) immaginando un giorno, come confessò, «di riuscire ad allenare proprio il Brasile». Sapeva da tempo che Berlusconi e Galliani puntavano su di lui e qualche mese fa si lasciò tradire in una conversazione con i giornalisti. Rimase “scottato” e fu messo in riga dall’interessato: «Deve pazientare ancora qualche anno» chiosò Ancelotti, risentito.
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