«Canto ancora per passione Ma d'ora in poi solo jazz»

«Canto ancora per passione Ma d'ora in poi solo jazz»

La voce dal timbro immediatamente riconoscibile è un dono della natura, la straordinaria capacità interpretativa è invece figlia della passione e del lavoro. Qualità, queste ultime, che rendono Ornella Vanoni, una volta ancora di più, una perfetta milanese. Attesa il 12 e 13 dicembre al Blue Note di Milano (ore 21, entrambe sold out), l'ex «cantante della Mala», come veniva chiamata un tempo, sarà accompagnata da un band di fidati musicisti di chiara impronta jazz, e cioè Max Ionata (sax), Dado Moroni (piano), Rosario Bonaccorso (basso) e Roberto Gatto (batteria).
Signora Vanoni, un mese fa si è esibita in Canada e, negli Usa, al Café Carlyle di New York. Oggi il Blue Note. La dimensione del club la sente più sua?
«Sì, e non penso sia una cosa di cui stupirsi. Il Blue Note, o il Carlyle che lei cita e che è molto più piccolo, sono luoghi dove il pubblico ti è vicino, ti respira quasi addosso. Per un interprete questo contatto è fondamentale: è quello che ti stimola. Si inizia a cantare per quello».
Qual è la regola che ha seguito nella sua carriera per non annoiarsi mai del proprio mestiere, anche se artistico e stimolante come il suo?
«La passione. Ma anche una parola più innocua è fondamentale: il divertimento. Si deve provare soddisfazione nel fare le cose. Per me, da sempre, cantare è stato bellissimo. Da giovane, essendo cresciuta al Piccolo con Strehler, avevo le strade aperte per la recitazione. Ma la musica mi ha preso totalmente».
Con «Meticci», il suo ultimo album, lei ha detto di voler chiudere con la discografia. D'ora in avanti concerti scelti e nuovi stimoli. Quali?
«Il jazz. Ma non il pop jazz come quello che, in fondo, porterò in queste due sere al Blue Note, dove interpreterò i miei nuovi brani e quelli che appartengono alla mia storia: voglio fare jazz con i musicisti di cui mi fido e che sono tutti jazzisti. E si badi bene: per jazz non intendo quel tipo di musica virtuosistica e difficile per forza. Penso al jazz alla Chet Baker. Non ho mai amato l'uso della voce nel jazz come se fosse uno strumento da assolo. Penso a qualcosa di liscio, piano e intenso. Di semplice».
Come in quell'interpretazione di «My Way», insieme alla tromba di Paolo Fresu, contenuta nel documentario «Ricetta di donna»?...
«Esattamente così. Quello fu un momento magico, che mi emozionò molto. Praticamente non avevamo nemmeno provato».
Sta facendo l'elogio dell'imperfezione o sbaglio?
«Certamente. Il fascino nella musica sta nell'imperfezione. Da lì nasce la magia.

Ascolti Amy Winehouse, la più grande voce degli ultimi anni: la sua grandezza è il fuggire la maniacalità della perfezione. Che è invece qualcosa che sento in troppe voci, oggi. Le case discografiche cercano voci magari virtuose ma tutte omologate. Molte escono dai talent, e sono tutte... simil-americane».

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