Simone Finotti
Può l'architettura cambiare il mondo? Certo, anzi dovrebbe farlo, a patto però che sappia «soffrire la realtà», pronunciarsi criticamente sulla propria epoca e disegnare ipotesi di futuro. Altrimenti rischia di ridursi a uno strumento di mercantile ossequio alla precarietà. Questa è la lezione di Vittorio Gregotti, barba candida, abbigliamento impeccabile e piglio risoluto, uno degli ultimi profeti di un'architettura «engagée», ma soprattutto «totale». Quella del famoso slogan «dal cucchiaio alla città», con il diritto-dovere di intervenire a tutti i livelli, dal disegno urbano agli arredi, dalla pianificazione territoriale al prodotto industriale. Per celebrare i novant'anni del grande maestro nato a Novara nel 1927, che ha contribuito a scrivere un lungo pezzo di storia dell'architettura e del design italiani (e pensare che il padre l'avrebbe voluto imprenditore del tessile!), il Pac - Padiglione d'Arte Contemporanea di via Palestro ospita da domani all'11 febbraio la mostra-tributo «Il territorio dell'architettura. Gregotti e Associati 1953_2017» a cura di Guido Morpurgo, promossa dal Comune, catalogo Skira.
Un'antologica che copre 60 anni di carriera con altrettanti disegni e 40 modelli originali in scala, oltre a 700 tra riproduzioni e fotografie, selezionati da un corpus di 1.200 progetti in Italia e all'estero. Prima, però, spazio al Gregotti saggista e teorico dell'architettura (il titolo della mostra riprende quello del suo primo libro, pubblicato nel 1966), con una rassegna di oltre 40 libri e 1200 articoli. Subito di seguito si parte per un viaggio a ritroso, dall'ultimo decennio agli esordi negli anni della ricostruzione. Gli ultimi lavori ci portano in Africa e Cina, e affrontano la sfida della rifondazione urbana sfociata nella realizzazione della nuova città di Pujiang, vicino a Shangai. Scenari con cui Gregotti si era già confrontato negli anni dei piani-progetto a Roma e Torino (vedi il Piano regolatore generale 1987-1995), e i progetti antropogeografici per il quartiere Zen di Palermo (Zona Espansione Nord, pensata per 20mila abitanti tra il 1969 e il '73), le università di Firenze e della Calabria, i complessi residenziali di Berlino, il Centro Culturale di Belém a Lisbona e l'innovativo «nucleo» per la Bicocca. Suo anche il progetto degli Arcimboldi, che rientra nel filone delle strutture per il tempo libero: il teatro di Aix-en-Provence e gli stadi di Barcellona, Genova, Agadir e Marrakech.
Da ricordare la collaborazione con la Rinascente. E ancora ospedali, musei, gallerie, allestimenti per mostre e stand, sale conferenze, centri culturali, negozi, complessi industriali, sedi aziendali. Ma anche mobili, elementi d'arredo, idee grafiche. Non tutte battaglie vinte, per la verità. Due esempi tra i più discussi: lo Zen, che per ammissione dello stesso architetto fu un mezzo naufragio, e Marassi, ripensato per Italia '90 e subito oggetto di mille polemiche. Risalendo agli anni Sessanta, ecco l'allestimento per la XIII Triennale (1964) e gli edifici delle coop milanesi.
Le prime sperimentazioni riflettono sulle relazioni tra architettura, città e territorio mediante collaborazioni con Meneghetti e Stoppino: è il caso del severo edificio per i dipendenti della filatura Bossi a Cameri (1956). Nei prossimi anni si attendono antologiche su Enzo Mari e su Ignazio e Jacopo Gardella.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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