Dopo aver dato il meglio con la proposta di reclutamento straordinario dei ricercatori, il ministro Mussi ha pensato bene di metter mano agli ordinamenti didattici dei corsi di laurea e di laurea magistrale. La sperimentazione del cosiddetto «tre più due» ne aveva in effetti evidenziato il bisogno. Alla prova, la riforma è risultata rigida e burocratica. In molti casi, si è limitata a diluire in cinque anni corsi quadriennali. Ha poi prodotto, da un canto, corsi di laurea esotici; dall'altro ha invece rinchiuso lautonomia delle singole sedi in gabbie di esami obbligatori e semi-obbligatori assai spesso prive di senso. Inoltre, il legame tra i due cicli di studi ha penalizzato in termini di calcolo dei crediti quegli studenti che, ricercando la qualità, avrebbero voluto cambiare sede universitaria dopo il triennio; gli atenei sono stati in tal modo protetti da ogni concorrenza esterna.
Questanalisi sembra condivisa dalle premesse al documento del ministero che espone le linee guida della riforma: si parla di «un netto aumento degli spazi dautonomia nella progettazione dei curricula», di «un sistema più libero e meno burocratizzato», di «differenziazione delle offerte didattiche», di «sperimentazioni innovative», di «flessibilità dei percorsi». Mi sarei dunque aspettato una semplice proposta di smaltimento delle classi di laurea, con la fissazione di un numero minimo desami indispensabili. Tutto il resto avrei sperato che fosse devoluto all'autonomia degli atenei.
La delusione è stata cocente. Perché la successiva declinazione di quelle incoraggianti premesse descrive, se possibile, ununiversità ancora più dirigista, burocratizzata, complessa e insensata di quella attuale. A cominciare dal linguaggio iniziatico, con riferimenti a documenti dellUnione Europea citati così come la Chiesa si riferisce ai Vangeli. Il linguaggio è un indizio importante. Quanto più si fa specialistico, tanto più si deve sospettare che esso copra una scarsa chiarezza didee. Ma, pur di avere nelluniversità un po più di libertà, concorrenza e meritocrazia mi sono disposto a sviscerare anche le formule più astruse.
Ho così scoperto che la questione non è di forma, ma di sostanza. Divieti, burocrazia e balzelli, infatti, rischiano d'aumentare. Basti pensare a ciò che concerne la libertà delle diverse sedi di organizzarsi la didattica: si concede la possibilità di creare percorsi formativi deccellenza a livello di laurea specialistica, ma si specifica che ladozione del numero chiuso è vietata. E si nega che la partecipazione a tali corsi possa costituire requisito per essere ammesso a specifici dottorati che, in teoria, servono proprio a perfezionare la formazione. Per deprimere ulteriormente lautonomia degli atenei, poi, il documento suggerisce loro di seguire, nella progettazione dei curricula, i consigli provenienti da specifici «tavoli tecnici» nazionali, regionali e dateneo. Chi ha intrapreso la carriera universitaria per passione scientifica, quando legge «tavolo tecnico» è istintivamente portato a metter mano alla pistola. Sa cosa significa: interminabili riunioni in cui nel migliore dei casi si perde tempo. Non paghi, gli estensori del documento, per esser certi che la fantasia degli atenei non prevarichi, specificano che qualora proprio non si possa fare a meno darticolare un corso di laurea in curricula, «occorrerà accertarsi che allarticolazione in curricula corrisponda unampia base comune, garantendo omogeneità e coerenza culturale». Mai sia che uno solo si differenzi o eccella! A garanzia suprema di ciò viene imposto il passaggio dal Consiglio universitario nazionale che, evidentemente, la costituenda Agenzia per la valutazione non soppianterà.
Vi sarebbe di che ridere pensando che tutto ciò è stato previsto per aumentare lautonomia degli atenei. Ma lilarità si dissipa di fronte ad una definizione della libertà dinsegnamento da cui si evince come tutti questi passaggi mirano, in realtà, a condizionare la facoltà del docente dinsegnare secondo coscienza e responsabilità. Un principio considerato indisponibile in ogni libera accademia e la cui interpretazione non dovrebbe nemmeno essere tentata visto che a maneggiarla, la libertà dinsegnamento, sono donne e uomini che hanno superato tre diversi gradi di concorso. E invece no: il documento cinforma che la libertà dinsegnamento «non è interpretabile come scelta dei contenuti dei singoli insegnamenti non riferibile agli obiettivi formativi prefissati». Ergo, il «tavolo tecnico» può dirti cosa insegnare! Più avanti, si afferma lautonomia così concepita come «il fondamento per linnovazione continua del sistema». Una sorta di rivoluzione permanente, di trotzkismo universitario così teorizzato: «Sintende considerare lattuale normativa come una prima, e peraltro necessaria, fase di passaggio rispetto ad una situazione, di cui affrettare per quanto più possibile la realizzazione, fondata a pieno titolo e in maniera stabile sullaccreditamento dellofferta formativa: una situazione, nel cui contesto saranno da rivedere ulteriormente i vincoli e le rigidità». Più che una prospettiva, una minaccia!
Mi fermo, affinché lincubo non mi sovrasti. Ma una riflessione simpone: perché tanta insensatezza? Tra le pieghe della sconcertante prosa se ne intravede la ragione: la rassegnata consapevolezza degli estensori, vissuta con terrore, di non poter evitare la competizione, e dunque lautonomia che essa comporta. Si teme che leccellenza prevalga sulla diffusione del sapere. Una cultura atavica impedisce loro di sapere che la competizione è sempre regolata e aderisce agli obbiettivi spontanei del corpo sociale anche se guidata da poche, semplici norme e da un occhio distante che eviti distorsioni.
(2. continua)
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