Molestie in classe, il tribunale: «I prof non denuncino solo per un sospetto»

Le motivazioni per l'assoluzione in appello di Fausto Caielli, ex dirigente di una scuola di Quarto Oggiaro condannato in primo grado a 5 anni e mezzo: «Le valutazioni non spettano ai presidi, ma all'autorità giudiziaria»

È necessario «evitare il proliferare di denunce basate su meri sospetti, che finirebbe col frustrare lo stesso interesse tutelato dalla norma incriminatrice». Lo scrivono i giudici della prima corte d'appello nelle motivazioni della sentenza con cui hanno assolto Fausto Caielli, l'ex preside di una scuola di Quarto Oggiaro condannato in primo grado a 5 anni e mezzo di reclusione per non aver denunciato tempestivamente il maestro Antonio Silvestre sospettato di molestare alcuni bimbi di una quarta elementare. Il ragionamento del collegio presieduto dal giudice Marta Malacarne ribalta la decisa posizione assunta in merito dal pubblico ministero Marco Ghezzi, oggi andato in pensione e fino a qualche tempo fa a capo del dipartimento della procura che si occupa dei reati contro i soggetti deboli. In primo grado Ghezzi aveva chiesto la condanna a 8 anni di reclusione per Caielli, sostenendo nella requisitoria che un preside è un pubblico ufficiale e come tale «ha il dovere di denunciare» quando raccoglie sospetti in merito alla presunta pedofilia di un insegnante e che «l'unica cosa che può esimerlo è che la denuncia sia palesemente infondata». Di più, secondo il pm «la valutazione in ogni caso non spetta al preside, ma all'autorità giudiziaria. È un principio a tutela delle vittime. Spesso i presidi pretendono di fare indagini. Questo inquina le prove, ma almeno interrompe l'azione. Qui invece non si è fatto nulla». Diverso il ragionamento dei giudici di secondo grado, che pure hanno condannato a 11 anni di carcere il supplente accusato di molestie sessuali. E se da un lato analizzano in concreto il comportamento del preside, dall'altro si richiamano a un principio generale stabilito dalla Cassazione. «È recente insegnamento della suprema corte - si legge nel documento di 44 pagine - che l'omissione o il ritardo del pubblico ufficiale nel denunciare i fatti di reato - nel caso di Caielli si verserebbe semmai in ipotesi di ritardo (...) - idonei a integrare il delitto di omessa denuncia di reato da parte di pubblico ufficiale si verifica solo in quanto il pubblico ufficiale non sia in grado di individuare, con sicurezza, gli elementi di un reato, mentre qualora abbia il semplice sospetto di una possibile futura attività illecita, deve, ricorrendone le condizioni, semplicemente adoperarsi per impedire l'aventuale commissione del reato, ma non è tenuto a presentare la denuncia». Ebbene, si legge, «la corte fa proprio l'insegnamento suddetto (...) da cui traspare la necessità di evitare il proliferare di denunce basate su meri sospetti, che finirebbe col frustrare lo stesso interesse tutelato dalla norma incriminatrice». E puntando al caso specifico, si afferma che «parrebbe logicamente incongruo da una parte chiedere a Caielli di denunciare meccanicamente all'autorità giudiziaria notizie di fatti costituenti reato, senza svolgere controlli di sorta e dall'altra, nel contempo, di emettere in relazione a quegli stessi fatti provvedimenti cautelari sospensivi (a carico dell'insegnante sospettato, ndr), postulanti un minimo di inchiesta». Infine la prima corte d'appello spiega di allontanarsi dall'interpretazione data dal collegio di primo grado alle stesse testimonianze, secondo cui Caielli aveva denunciato in ritardo il maestro con la scusa di pretendere dichiarazioni scritte dai genitori dei bimbi molestati, per non infangare la reputazione della scuola. «Non convince la tesi del Tribunale sul movente che avrebbe ispirato la sua condotta - scrivono -: la Corte osserva che se il fine era di mettere tutto a tacere per salvare il 'buon nomè della scuola che dirigeva, reclamare uno scritto o invitare alla diretta denuncia dei fatti alla polizia significava andare in direzione opposta, significava "pubblicizzare" quei fatti, veri o meno che fossero. Quel movente sembra poi in sé ben poca cosa per essere credibile, poiché non paga l'enormità del rischio cui Caielli, uomo di cultura e certo non sprovveduto, si esponeva risolvendosi a rimanere volontariamente inerte, a rischio di un processo, di una condanna infamante, della reclusione, che l'avrebbero travolto e infangato, con ricadute devastanti anche per la sua famiglia».

Secondo la corte d'appello, «anche sostenere che reclamasse uno scritto per 'scaricarè su altri le ineludibili responsabilità d'una denuncia appare riduttivo in relazione a quegli iniziali frangenti, in cui il rifiuto ben poteva tradurre l'incertezza, se non lo scetticismo degli stessi propalanti su una "verità" ancora troppo informe, "verità" non ancora assurta a "notizia", a "cronaca" da rapportare all'autorità giudiziaria».

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