L'accoglienza riservata dai vertici europei alla proposta italiana di una «road map» per la pace in Ucraina ricorda certe partite di calcio truccate: alla vigilia tutti giurano impegno e fame di vittoria, poi in campo l'unico a non aver capito la pastetta segna e si scatena il panico.
Ecco, le parole di ieri dell'Alto rappresentante alla politica estera Ue Josep Borrell suonano come un rimprovero per l'iniziativa italiana di costruire la pace: una cosa che si dice e si agogna a parole, ma non si fa. «Ho preso nota dell'annuncio - ha detto sprezzante -. Noi appoggiamo tutti gli sforzi per provare ad ottenere una fine del conflitto», ma solo dopo il «ritiro incondizionato delle truppe russe». Ha «preso nota», con la freddezza distaccata dell'assistente vocale di iPhone. Una reazione intrisa di superiorità e arroganza, che derubrica l'unico embrione di proposta diplomatica messo finora sul tavolo, per quanto vago, a fastidiosa ingerenza. «L'Europa rimanga unita», significa: Bruxelles fa le proposte, voi limitatevi ad armi e assegni. Un'uscita che dà fiato ai complottisti, perché porre come condizione un ritiro totale di Mosca è talmente utopistico che ingenera il solito dubbio: altro che aiutare Kiev, Ue e Nato vogliono solo distruggere la Russia. Un alto risultato comunicativo per l'Alto rappresentante, non c'è che dire.
Il nodo è capire cosa si intende per «pace». Abbiamo ascoltato banalità a metà strada fra le citazioni hippy sulla Smemoranda e i discorsi delle reginette di bellezza che sognano un universo più buono, sia nel dibattito politico italiano viziato dalla ricerca patologica del consenso, sia a livello internazionale. Per cui, certo, l'obiettivo è la pace in Ucraina. Lo dicono il Papa, Draghi, Conte e Salvini, la sinistra e perfino questo Giornale. Ma come ottenerla concretamente? La ricetta di Madre Teresa era: «Per promuovere la pace nel mondo, vai a casa e ama la tua famiglia». Parole da santa in paradiso. Invece, in questo mondo brutale, il Cremlino non si ferma con le carezze davanti al focolare. E i rappresentanti, siano essi alti, bassi o medi, sanno benissimo che il «muro» di Putin non si abbatte con il buon cuore.
La pace - più che questione florofaunistica di colombe e ulivi - è un punto di caduta strategico fra due estremi: la resa incondizionata dell'aggredito bramata dal professor Orsini, che ha studiato molto ma non Malcom X quando diceva che «non esiste pace senza libertà», e l'annichilimento totale dell'aggressore da perseguire con un conflitto lungo, che è il piano sempre più esplicito di Washington. E, stando a quanto detto ieri, di Borrell. Le armi occidentali e le sanzioni a Mosca sono state fondamentali per spostare il punto di caduta più in là. L'Ucraina ha resistito, attenuato la sproporzione dei rapporti di forza e ora può negoziare senza spalle al muro. E se inizialmente era la Russia a non essere interessata alla pace senza prima aver raggiunto i propri obiettivi, ora anche Kiev respinge ogni proposta che non implichi il ritiro totale del nemico. Che però non avverrà spontaneamente, soprattutto dopo che ieri lo Zar ha conquistato Lugansk e l'acciaieria Azovstal.
Per nulla permanente, il centro di gravità della guerra si sta spostando sia sul campo di battaglia, sia sul terreno delle rivendicazioni. A massimalismo, massimalismo e mezzo. Resta da capire se il ruolo della diplomazia internazionale sia trovare una via per il compromesso e un'uscita dall'orrore che soddisfi l'integrità politica e territoriale di Kiev, oppure assecondare il suo sogno legittimo, ma anche potenzialmente devastante, di respingere Putin fino alla sua distruzione. Il che, concretamente, sarebbe la sfida finale fra due mondi.
Una prospettiva che gli Usa accarezzano, ma che somiglierebbe a un lungo conflitto mondiale.Per l'Europa uno scenario tremendo, e soprattutto opposto a quella «pace» che Borrell e compagnia continuano a nominare invano.
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