Chiesti dal governo di unità nazionale di Fayez Serraj, sostenuto dall'Onu, sulla Libia sono iniziati i bombardamenti dei caccia Usa contro i miliziani dell'Isis. Per ora nel bersaglio c'è la roccaforte jihadista di Sirte. Ma basterà la guerra dal cielo per sconfiggere i tagliagole? "Nel breve periodo rafforzano il governo", osserva Arturo Varvelli, esperto di Libia e responsabile
dell'Osservatorio terrorismo dell'Ispi. Ma non sono sufficienti per estirpare l'Isis dal Paese nordafricano. Innanzitutto, sottolinea Varvelli, "non si possono paragonare questi bombardamenti a quelli su Siria e Iraq anche perché il coinvolgimento degli Stati Uniti è stato molto selettivo. Non è una novità nemmeno i bombardamenti (in Libia, ndr) perché ce ne erano stati a dicembre scorso e uno a febbraio, durante il quale era stata colpita una base a Sabratha dove c'erano tunisini legati allo Stato islamico".
La scelta degli Stati Uniti di bombardare i jihadisti a Sirte in questo momento, spiega Varvelli, arriva sostanzialmente per due motivi. Il primo è che Washington vuole cercare di superare lo stallo che si è verificato a Sirte, dove i misuratini, sebbene abbiano costretto l'Is ad asserragliarsi in pochi quartieri, non riescono a prendere il controllo totale della città. "Gli Stati Uniti cercano di contribuire al lavoro che sul campo stanno facendo i misuratini. La strategia - afferma Varvelli - può essere cambiata perché ora, rispetto ad alcuni mesi fa, c'è chiaramente un fronte aperto dalle forze pro-Serraj".
Il secondo punto è che ora c'è una maggiore chiarezza politica, con un governo, "seppur fragile e non pienamente legittimo", comunque riconosciuto a livello internazionale. "Serraj
stesso ha richiesto l'intervento - aggiunge Varvelli - perché si sentiva in questo momento molto debole, accusato dai misuratini e dalle componenti della Tripolitania che stanno combattendo al fronte di non farsi mai vivo e di non essere riuscito ad ottenere un supporto vero e proprio dalla comunità internazionale nella battaglia che stanno facendo sostanzialmente da soli".
"Quindi Serraj ha risposto a queste accuse e gli Stati Uniti a loro volta in questa maniera lo rafforzano nel breve periodo dandogli una credibilità - prosegue -. Ma a lungo andare, se l'impasse militare non dovesse essere superato, il governo Serraj resterà sempre esposto alle accuse di essere un fantoccio dell'Occidente".
I raid Usa, inoltre, sono per Varvelli anche un messaggio "indiretto" al generale Khalifa Haftar, che guida le forze fedeli alle autorità di Tobruk, e al suo "protettore che sta al Cairo", ovvero il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi. "In questo periodo Haftar sembra uscire un po' come il perdente in quanto non può rivendicare un vero e proprio ruolo nella battaglia contro lo Stato islamico - afferma l'esperto - ma in realtà continua a controllare gran parte del territorio della Cirenaica e ad essere usato da al-Sisi stesso come baluardo contro l'espansione del califfato".
L'analista dell'Ispi si mostra dubbioso sull'efficacia dei raid aerei nella lotta contro l'Isis. "Se guardiamo a quanto avviene in Iraq e Siria possiamo dire che non sono decisivi e non sono sufficienti. E' anche vero che in Libia lo Stato islamico è stato poco contrastato da questo punto di vista. Quindi nel breve periodo qualche risultato potrebbero ottenerlo, poi è molto difficile pensare che questi (i jihadisti dell'Is, ndr) vengano sconfitti solo con i bombardamenti aerei".
Infine Varvelli analizza il rischio che i raid in Libia possano esporre maggiormente l'Italia alla minaccia terroristica. "L'Italia non è immune dai rischi rispetto all'Europa.
Certamente Francia e Belgio non sono l'Italia per numero di possibili casi di radicalizzazione e per contesto socio-politico. Sappiamo che l'Italia a prescindere non sarebbe immune e questo (il raid su Sirte, ndr) cambia poco".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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