Mike Eruzione, studentello paisà che incendiò la Guerra fredda

Ai Giochi olimpici invernale di Lake Placid del 1980 l’Armata rossa di hockey su ghiaccio pareva invincibile. Ma una banda di ragazzini americani con un capitano italiano fece il miracolo. E lì cominciò a sgretolarsi l’Unione Sovietica comunista

Mike Eruzione festeggiato da Donald Trump
Mike Eruzione festeggiato da Donald Trump

Dieci secondi, nove, otto. L'Olympic Fieldhouse di Lake Placid sembra Fuorigrotta a Capodanno: ci sono 8.500 invasati che gridano «iu-es-ei, iu-es-ei». Sono arrivati da ogni angolo d’America, hanno viaggiato per ore sui pullman, pagato 200 dollari il biglietto, dormito dentro i sacchi a pelo, pur di essere qui, al centro dell’universo, in un venerdì di fine febbraio come tanti, ma non qualunque. Sette secondi. Sei, cinque. Casa per casa, bar dopo bar, dall’Adirondack Park di New York alla costa del Pacifico fin giù in Florida e di lì alla Casa Bianca, mille chilometri più a sud, dove il presidente Carter è da due ore incollato alla tv come fosse una guerra, le urla di 250 milioni di americani scandiscono un countdown che sembra non finire mai. Non si vedeva uno spettacolo così dai tempi della Luna. Quattro secondi, tre, due. Dal postazione tv della Abc, Al Michaels, il principe dei telecronisti, grida, esaltato e stupefatto, una frase che diventerà una pietra miliare del giornalismo tv, che resterà per sempre nel vocabolario del sogno americano: «Credete nei miracoli? Yeeesssss!!!» Un secondo, suona la sirena, fine: sulla pista di ghiaccio volano lattine, bandiere, cuscini, un mucchio selvaggio di maglie bianche e blu con la scritta «Usa» sul petto scaraventa per aria guantoni, stecche, caschetti, tra urla, abbracci e baci appassionati. Dall’altra parte, in un angolo, impietrito, avvilito, sgomento, un esercito di maglie rosse fuoco è immobile, con gli occhi sbarrati, quasi sull’attenti. Sono i russi sconfitti: la Guerra fredda è finita, l’Unione Sovietica non c’è più. Perché quella che si consuma nella semifinale di hockey su ghiaccio alle Olimpiadi di Lake Placid, quarant’anni fa giusti, non è solo una partita, «il momento sportivo più alto della storia dello sport americano» scrive Sports Illustrated più della medaglia d'oro di Jesse Owens vinta davanti a Hitler, più di qualsiasi prodezza di Michael Jordan, Tiger Woods o Muhammad Ali. È l’anticipo del mondo che verrà, il futuro in anteprima. Uno scontro tra pianeti deciso, come l’Italia-Germania dei mondiali di calcio del Settanta, dalla rete di un italiano, Mike Eruzione, uno studentello di ventisei anni, che sembra uscito da un film di Frank Capra, simbolo di un’America di irriducibili sognatori, di self made men e di paisà partiti dal niente. È lui, il capitano, che prende il disco a centro pista, si nasconde dietro il russo Vasili Pervukhin e scaglia nella rete di Vladimir Myshkin un tiro secco, quasi invisibile, come la fiondata di Davide che abbatte Golia. «A meno che il ghiaccio non si sciolga i russi vinceranno la loro sesta medaglia olimpica» aveva scritto il New York Times il giorno prima. Ma quel pomeriggio il mondo si mise a girare al contrario. Mike Rizzo Eruzione cresce a Winthrop, un’antica città di mare con i piedi ben piantati su un angolo di terra sporgente a est di Boston: da una parte c’è la Baia del Massachusetts, dall’altra l’aeroporto dedicato al generale Logan: è una specie di Lilliput con 18mila persone raccolte in un'area di ventuno chilometri quadrati, un francobollo di terra fatto di case a ciottoli costruite su spazi non molto più grandi di un area di rigore, dove la skyline di Boston, che si vede dal porto, sembra lontana più di quello che è. «Pattinavamo dove capitava, su campi da tennis o angoli di spiaggia congelati dall’inverno - racconta Eruzione - ma io volevo diventare un campione di baseball». Per comprargli i primi pattini la mamma vende la collezione di francobolli di famiglia. Non si rende conto di quale investimento abbia fatto. Sono quattro milioni gli italiani arrivati qui a cavallo del Novecento: siciliani, calabresi, emiliani, vivono in ghetti come Front Street a Hartford, Central End a Bridgeport, Shrewsbury Street a Worcester, South End a Springfield. Fanno i lavori più umili, vivono le vite più grame. Eugene Eruzione, il papà di Mike che tutti chiamano Jeep, lavora alla manutenzione delle fogne e di sera fa il cameriere in una pizzeria. Con Helen, la moglie irlandese, quattro figlie femmine e due maschi, vive al secondo piano di una palazzina di tre piani che, più che un condominio, sembra una family farm. Al primo c’è la sorella di Eugene, il marito e tre figli, al terzo il fratello di Helen che ha sposato un’altra sorella di Eugene con tre bambine e due bambini. C’è sempre un via vai di zii e cugine tra i corridoi e l'aria che profuma di pasta al sugo. «Ho avuto un’infanzia fatta di niente, ma bellissima». I suoi eroi non sono i campioni dello sport ma «i maestri di scuola e i poliziotti del quartiere». I genitori gli insegnano a credere nei sogni, ma senza perdere l’umiltà e senza mai dare niente per scontato. Non è un ragazzo che vuole arrivare a tutti i costi ma è uno che non si arrende mai. Una borsa di studio lo iscrive alla Boston University, batte tutti i record di reti, in quattro anni non salta mai una gara, ma nessuno punta un dollaro su di lui. Nessuno tranne Herb Brook, l’allenatore della Nazionale di hockey su ghiaccio, una specie di Arrigo Sacchi dalle idee rivoluzionarie, che sa spingere i giocatori oltre i loro limiti fisici ed emotivi. Si è messo in testa un’idea impossibile, battere la squadra più forte del mondo, la squadra dell’Unione Sovietica, e non con i migliori professionisti dell’Nhl, ma con un manipolo di universitari e nemmeno i più bravi. L’Armata Rossa non è solo una squadra di hockey su ghiaccio, è un’invincibile macchina da guerra che ha vinto cinque delle ultime sei Olimpiadi, cinque degli ultimi sette mondiali, che non perde una partita da 19 anni e che ha stritolato quel manipolo di sbarbati per 10-3 meno di un mese prima. Vladimir Petrov, il Cristiano Ronaldo dell’hockey, il capitano Boris Mikhailov e Valery Kharlamov, che morirà l’anno dopo con la moglie in un incidente stradale, sono il tridente d’attacco più forte di tutti i tempi. «Erano soldati dell’Armata rossa, si sentivano liberi perché potevano viaggiare - racconta Eruzione - Mi ricordo ai campionati del mondo, passai davanti alle loro stanze e vidi un sacco di stereo e radio. Era così che venivano premiati. Il regime li prendeva bambini e diceva loro: tu farai l’hockeista. E loro non facevano altro per tutta la vita». Herb Brook è ossessionato dalla bellezza del loro gioco, basato su passaggio e velocità, incantato dal modo con cui attaccano, logorando il nemico con la sola forza di volontà. Per batterli non bastava essere perfetti, ci voleva impegno totale e idee fuori dagli schemi. Non recluta i migliori ma quelli più capaci di fare squadra, li sottopone ad allenamenti estenuanti, a test di trecento domande per valutare la loro solidità psicologica, per cementare il gruppo si fa odiare a morte. Sono una squadra di ragazzini dilettanti senza nome e senza volto, ma dal niente tira fuori tutto. E quella sera, la sera del Miracle on ice, con un discorso incendiario trasforma venti nerds in una pattuglia di marines. Dice: «I grandi momenti nascono dalle grandi opportunità. E questo è quello che avrete stasera, ragazzi. Se giocassimo dieci partite loro ne vincerebbero nove, ma non questa partita. Non stasera. Stasera noi siamo la più grande squadra di hockey del mondo. Questo è il vostro momento. Andate là fuori e vincete!». Mike Eruzione ha ancora i brividi quando riascolta Al Michael e «dopo quarant’anni i fans mi scrivono ancora». A 65 anni vive nella città che lo ha cresciuto e lavora per l’Università di Boston, tiene dozzine di discorsi ogni anno, motiva manager e studenti. La pista di hockey della città oggi porta il suo nome, ha messo all’asta la maglia numero 21, i guanti, la stecca, il caschetto di quella partita per finanziare la Winthrop Foundation che ha creato per aiutare chi non ha niente: ha raccolto un milione e mezzo di dollari.

Quando gli hanno chiesto di essere l’ultimo tedoforo alle Olimpiadi di Salt Lake City ha voluto tutta la squadra con sè. Nonostante offerte miliardarie Mike smise dopo i Giochi: «Cosa avrei mai potuto fare più di un miracolo?»

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