Sono i grandi dimenticati. E rischiano di diventare la nostra indelebile vergogna. Sono i morti che camminano, gli zombie dell'Afghanistan talebano. Sono uomini e donne in divisa che avevano promesso fedeltà all'esercito afghano e a quello italiano. Per questo erano nelle liste di chi doveva esser fatto uscire dal paese. Ma nel caos degli ultimi giorni nessuno si è curato di loro. E così ora a cercarli sono quei talebani al cui odio avevamo promesso di sottrarli.
Afrooz, chiamiamola così, è uno dei casi più disperati. Fino a pochi mesi fa vestiva la divisa dell'esercito afghano e lavorava con un'unità di donne soldato messa insieme con il coordinamento dei nostri comandi di Herat. Proprio per questo il suo nome e il suo volto erano comparsi su tanti, troppi, media afghani. Ora quel nome e quel volto sono sulle liste nere talebane. E lei, fuggita da Herat, vive alla macchia nella capitale assieme alla figlia di pochi mesi, al marito e ai fratelli. «Ho lavorato con i vostri ufficiali per sei o sette anni e l'esercito afghano mi ha più volte decorata eppure sono stata lasciata indietro. Così ora la mia vita e quella della mia famiglia è a rischio» Afrooz non parla a caso. L'incontriamo nella sala riservata alle famiglie di un ristorante di Kabul. Ha il volto coperto da una mascherina e il capo avvolto in un velo giallo.
I fratelli e il marito, anche loro ex militari, sorvegliano preoccupati l'entrata della sala. «La nostra situazione è disperata se voi italiani non riuscirete a farci uscire dal paese finirà male. Molto male. Cinque giorni dopo la nostra fuga da Herat i talebani si sono presentati a casa mia, l'hanno perquisita, si son portati via ogni cosa, dai mobili ai vestiti e han bloccato l'entrata con un enorme lucchetto. Poi son andati da mia madre dicendole che avevo tempo cinque giorni per presentarmi al loro comando. Passati i cinque giorni sono tornati e se la son presa con mio padre. Non ti vergogni - gli han detto - di avere una figlia che lavora per gli stranieri?. Poi l'hanno insultato e gli han dato venti giorni per portarmi da loro. Quando ci penso, mi vien ancora da piangere. Non riuscirò mai a fuggire alla loro vendetta». Afrooz purtroppo non ha torto. «Il mio nome è nelle vostre liste e avrei diritto a venir accolta in Italia, ma come faccio ad arrivarci viva ? Se anche riprendessero le evacuazione non potrei presentarmi all'aeroporto perché sono ricercata dai talebani. Per lo stesso motivo non posso uscire legalmente dall'Afghanistan e presentarmi in una vostra ambasciata. Dovrei fuggire illegalmente, ma non posso farlo con una bimba di meno di un anno. Non posso mettere a rischio anche la sua vita».
In un altro ristorante ci aspettano Imtiaz e Jawid. Anche i loro nomi sono ovviamente fasulli. La loro storia e la loro disperazione un po' meno. «Vi prego - sussurra Imraz - chiedete al vostro governo di portarci via. Preferisco dormire per strada in Italia che rischiare la vita qui in Afghanistan». Il loro caso è il simbolo dell'improvvisazione che ha guidato la tumultuosa evacuazione di fine agosto. «Quando, fuggiti da Herat, siamo arrivati Kabul e abbiamo chiamato i due contatti, un ufficiale italiano e il portavoce di noi traduttori, incaricati di coordinare l' entrata all'aeroporto per l'evacuazione nessuno ci ha risposto. Abbiamo chiamato per giorni e nessuno ci ha dato retta. E non siamo i soli. Oltre a noi ci sono almeno altri otto interpreti dimenticati da voi italiani e costretti a vivere alla macchia con le famiglie» spiega Jawid mostrando su Whatsapp i profili dei due fallimentari contatti.
Quando gli ricordiamo la promessa di amnistia per i collaboratori degli eserciti stranieri annunciata dai talebani all'indomani
della vittoria Imtiaz e Jawid sorridono e scuotono la testa. «Voi credete a quella roba? I talebani in passato hanno già tagliato la testa a tre nostri colleghi. E sono pronti a rifarlo con noi se ci prendono».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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