Ieri mattina, nel carcere centrale di Lahore, in Pakistan, è suonato l’ultimo rintocco per Imran Ali. Non tutti si ricordano del suo nome, ma nessuno ha scordato il viso sorridente della piccola Zainab Amin. Aveva appena sette anni e stava andando a lezione di Corano quando Imran l’ha rapita, stuprata, strangolata e gettata in una discarica di Kasur. Era il gennaio dello scorso anno.
Quell’omicidio scatenò sdegno e proteste in tutto il Paese, vennero assaltati edifici governativi e stazioni di polizia. Le pressioni sulle forze dell’ordine, affinché assicurassero l’omicida alla giustizia, furono enormi. Non solo nel nome di Zainab, ma anche di quello delle numerose vittime di stupro che non hanno mai ricevuto giustizia. Non a caso, in riferimento alla condizione femminile in Pakistan, si parla unanimemente di “cultura dello stupro” con decine di denunce al giorno. E solo sui minori, dal 2013 al 2017, i casi di violenza sessuale emersi sono più di 18mila.
Ha pagato, forse, per tutti Imran. Appeso per il collo a ventiquattro anni, alle 5:30 di mercoledì mattina, sotto gli occhi del padre della vittima. Ha pagato anche per gli intoccabili perché, come ha ricordato il presidente della Pakistan Minorities Teachers Association, James Paul, il giorno in cui Imran è stato condannato al patibolo, la giustizia pachistana ha figli e figliocci. E quando questi crimini vengono commessi da uomini potenti e utilizzati per perseguitare le minoranze religiose chiude un occhio.
Il presidente di Human Rights Focus Pakistan, Naveed Walter, ha detto ad AsiaNews che “impiccare qualcuno non serve a fare giustizia e non è la soluzione al problema”. Quello che servirebbe in Pakistan è una “strategia di lungo periodo, che porti cambiamenti positivi nella società e nella vita delle vittime, sia bambine che ragazze” perché “la pratica disumana della violenza sessuale non avrà termine con l’impiccagione dei colpevoli, fino a quando non verranno adottate adeguate misure di sicurezza per tutti i cittadini”.
Ma la posizione degli attivisti per i diritti umani non è univoca. Per Samson Salamat, presidente del Movimento interreligioso per la tolleranza, la punizione inflitta a Imran “dimostra il potere della voce del popolo: quando il popolo sta dalla parte della giustizia, niente può fermarla”.
Anche per lo scrittore e attivista Kashif Hussain, “nella nostra società ci sono tante altre Zainab che attendono giustizia. Non ci dobbiamo fermare, dobbiamo portare avanti la lotta contro i mali che affliggono la società”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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