«La foto migliore è quella che farò domani», mi dice al telefono Guido Harari, fotografo, giornalista musicale, gallerista (la sua Wall of Sound Gallery, ad Alba, è una chicca). E come fai a non credere a uno che, in cinquant'anni di carriera, ha immortalato da Bob Dylan a Kate Bush, da Lou Reed a Frank Zappa, da Tina Turner a David Bowie e poi Paolo Conte, Pino Daniele, Fabrizio De André, Ligabue, Mia Martini, Gianna Nannini, Vasco, Vinicio Capossela? E ancora, grandi italiani come Alda Merini, Carmelo Bene, Liliana Segre, Miuccia Prada, Giorgio Armani. «Non fotografie, incontri», precisa e infatti Guido Harari. Incontri s'intitola la mostra che, voluta dalla Fondazione Ferrara Arte e il servizio museo d'arte del comune, riporta fino al 1 ottobre a Palazzo dei Diamanti, gioiello del rinascimento fresco di riqualificazione, la fotografia («Quarant'anni dopo l'ultima esposizione, dedicata a Luigi Ghirri: che responsabilità!»). In autunno la mostra farà tappa anche a Milano: «È un work in progress, anzi ora dovrei andare: ho un ritratto da realizzare», aggiunge.
Adesso?
«Volevo una mostra viva e allora, al termine di undici sale e trecento ritratti di persone notissime nel campo della musica e della cultura, ho pensato di inserire una galleria con volti di perfetti sconosciuti che visitano l'esposizione. La sto realizzando in questi giorni (prenotarsi su mostraguidoharari.it, ndr)».
E come funziona?
«Concedo un'ora a ciascuno. I primi trenta minuti si chiacchiera, nella successiva mezz'ora, senza trucco e parrucco, con luci direi caravaggesche, faccio il ritratto. È una sorta di catarsi: chi viene qui mi parla dei suoi problemi, dei suoi sogni. Il set di chiama Caverna Magica».
Che differenza c'è tra immortalare una pop star e una persona qualunque?
«Io funziono come cartina al tornasole: vado dove mi porta il soggetto. I personaggi noti hanno dei filtri, sanno che la loro immagine è un prodotto da vendere. Con la gente comune questo non accade».
Che pubblico sta incontrando a Ferrara?
«Questa è un'esposizione di storie, dagli anni Settanta ad oggi trovi tutti i grandi della musica e non solo. Per chi ha 50 o 60 anni è un viaggio nel tempo».
E per i giovani?
«Alcuni ne sanno più di noi, credo colgano il tempo della nostra essenza felice, per citare le parole che Vittorio Sgarbi ha usato nel testo di accompagnamento alla mostra. Non si viene qui per analizzare le foto dal punto di vista formale, direi che siamo nell'area emozionale».
Cos'è per lei la fotografia?
«Mi limito alla definizione di ritratto, che è l'arte dell'incontro».
Dipende anche dal suo umore del momento?
«Certo. A volte ho preferito metter via la macchina e privilegiare la costruzione di un rapporto futuro, se capivo che il soggetto o io eravamo sgonfi. È capitato con Joni Mitchell. Anche Liliana Segre non aveva voglia di esporsi: ho messo anni a convincerla».
Che cosa le ha detto?
«Che per me era essenziale ritrarla, che era un modo per preservare la memoria».
All'inaugurazione a Ferrara è venuta Ute Lemper.
«Il primo incontro risale al '92, per un servizio su Max. Lei non mi conosceva, era sulle sue, ma poi il servizio le piacque così tanto che lo propose alla casa discografica per la cover dell'album Illusion. Ci siamo persi di vista, grazie a Instagram ci siamo ritrovati».
Cioè?
«Ute un giorno ha postato una mia foto, taggandomi, e da lì abbiamo cominciato a risentirci per dei progetti legati ai suoi 60 anni: c'è grande affinità tra noi».
Guido Harari, nato a ilCairo settant'anni fa, vissuto a Milano ora ad Alba, quando ha capito che avrebbe fatto il fotografo?
«Fin da bambino ero attratto dalle immagini, divoravo le poche riviste americane che arrivavano in edicola da noi. La folgorazione è arrivata nel 71».
Come?
«Sul numero di Rolling Stone esce una mega intervista a John Lennon per il suo primo album da solista dopo la rottura con i Beatles. In copertina c'è uno scatto di Annie Leibovitz. All'epoca era una reporter pura: la foto era in bianco e nero, quasi senza luci, con lo sguardo di Lennon dritto in camera. Mi sono detto: se si può raccontare la musica in modo così sincero, questo è quello che voglio fare nella vita».
I suoi maestri?
«Cesare Monti che immortalava Battisti, Armando Gallo che seguiva la scena musicale brit, Giuseppe Pino che si dedicava con eleganza al jazz. Ma resto un autodidatta, non ho fatto scuole».
Com'è cambiato il modo di fotografare le rockstar?
«Ho sempre scelto artisti che mi piacessero musicalmente e mi interessassero come soggetti e, pur senza avere la commissione di un giornale, riuscivo ad agganciare manager e agenti per ottenere un incontro per lo shooting. Oggi è tutto diverso, standardizzato. Vorrei fotografare Lizzo, ma è inavvicinabile. Lo sono anche gli emergenti, a dire il vero».
Sfogliamo l'album degli incontri: come andò con David Bowie?
«Nessuna interazione, gestiva tutto lo staff, ma nello showcase al Piper di Roma, nel marzo del 1987, l'ho mitragliato di foto per un'ora. Anche in passato non era facile il rapporto con le big star, ma almeno avevi la possibilità di seguirle in concerto. Ora neanche quello: ti portano dentro, ti lasciano tre canzoni poi ti scortano via. Non si riesce a studiare il linguaggio del corpo, l'espressione».
Sotto il palco ci va ancora?
«Quando proprio c'è qualcuno che mi incuriosisce molto, come Florence and the machine».
Torniamo all'album degli incontri. Il giorno della morte di Tina Turner lei ha postato su Instagram una foto con un messaggio molto dolce.
«Sul palco una tigre, tranquilla nel privato. Sono stato felice di averla immortalata nel 1983 quando con Let's stay Togheter stava risalendo la china: sentivo la sua energia, ne ho colto la gioia del riscatto»
Patti Smith?
«L'ho ritratta nel '96 quando, dopo la morte del marito, tornava alla musica con l'album Gone again. In tour aveva dietro i figli, Michael Stipe, la sua famiglia musicale. Era straziante: piangeva sul palco, tra una canzone e l'altra. L'ho immortalata nei momenti di debolezza e lei si è data con generosità. Forse ne aveva bisogno».
È sua una delle più belle foto di Lou Reed e Laurie Anderson. In Italia Reed voleva ritratti solo da lei.
«A dire il vero la prima volta andò male. Lou Reed era a Milano, nel '75, e si esibì in un concerto funestato dalle contestazioni, lui era anche nel suo periodo, diciamo così, di alterazione chimica. Ci rivedemmo a Verona, negli anni Ottanta: seguivo i suoi live, cominciò a svilupparsi un legame, ma solo vent'anni dopo ritrovai Lou e Laurie come coppia. Passammo in Italia una decina di giorni insieme: li osservavo, vedevo gli sforzi di Laurie per liberare Lou dagli obblighi del mestiere, dal peso delle promozioni. A Torino, alla fine del giro, lui era rilassatissimo e così venne fuori quel ritratto così intimo che Laurie decise di usare su Rolling Stone, accanto a un suo toccante testo, quando Lou morì. È bello quando una tua foto significa qualcosa per il soggetto che ritrai».
Quello con De André fu un rapporto speciale.
«Nel '79 era in tournée con la PFM. Lo sorpresi mentre si era addormentato al palasport, per terra, vicino a un termosifone. Rimase colpito dallo scatto: avevo visto la sua vulnerabilità. Da lì abbiamo lavorato insieme per vent'anni»
La dote migliore di un ritrattista?
«Avere i sensori dell'anima sempre all'erta».
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