È il 23 settembre 1943 quando prende vita la Repubblica sociale italiana. È il nuovo Stato che può finalmente dare attuazione al fascismo integrale - repubblicano e sociale - delle origini? È la «Repubblica necessaria» che evita all'Italia di far la fine tragica della Polonia? O è, piuttosto, «lo Stato fantoccio» dei tedeschi, votato a scrivere la sua ultima e più atroce pagina di violenza?
Su questa, estrema e disperata, reincarnazione del fascismo ci sono ormai poche zone d'ombra. Punti oscuri, controversie e interrogativi restano invece aperti sul ruolo svolto dal Duce che riappare quasi redivivo. La recente pubblicazione del carteggio tra Benito e Claretta ha già permesso di svelare «il Duce segreto». Ora, l'edizione completa delle note di agenzia, 66 fogli redatti personalmente da Mussolini, di cui tre inediti, e gli altri comunque a lui riconducibili (Corrispondenza Repubblicana, a cura di Giuseppe Parlato, Luni Editore) permettono di rivisitare «il Duce pubblico». Si tratta complessivamente di 102 note, che coprono praticamente tutti i 600 giorni della Repubblica di Salò. La prima è del 28 settembre, l'ultima del 22 aprile '45, solo tre giorni prima della Liberazione. Anche se il grosso di queste note era già reperibile nell'Opera omnia di Mussolini, l'intera silloge a disposizione in un volume singolo favorirà certo una più attenta valorizzazione di questa fonte sino a oggi trascurata.
Con la Corrispondenza Mussolini mirava, anzitutto, a coprire il vuoto di commenti e interventi specificatamente politici che denunciava la stampa di regime, in grave difficoltà dopo l'8 settembre a reperire notizie per la mancanza di corrispondenti e inviati. In secondo luogo il Duce si proponeva di supportare la campagna di stampa a sostegno delle ragioni fondanti della Rsi. Al contempo, il ricorso alla parola scritta significava per lui il gran ritorno a una passione mai dismessa per il giornalismo. Le note, rigorosamente anonime, passavano anche per radio, in genere la sera dopo il giornale radio, alle 20,30 o alle 21, sempre comunque sottoposte alla sua cura. Debitamente raccolte, le Corrispondenze vennero proposte anche in opuscoli mensili e, alla fine del primo anno, in uno specifico volume. Lo spunto per i commenti era offerto a Mussolini sia dalle intercettazioni delle radio nemiche che dalla stessa stampa badogliana e alleata.
Un'attenta lettura del corpus di queste note aiuta a mettere meglio in chiaro non solo gli orientamenti che il Duce coltiva nel corso dell'intera vita della Rsi, ma anche le correzioni di linea politica che egli matura nel corso della guerra. Ben interpretate, come fa Giuseppe Parlato nella preziosa introduzione al volume, forniscono anche ulteriori utili indicazioni sul ruolo del Duce nella sua ultima avventura politica. I suoi commenti sono eloquenti, infatti, non solo per quel che dicono ma non meno per quel che nascondono.
Finché resta una parvenza di plausibilità, se non altro propagandistica, all'ipotesi di «uscire da questo abisso» - com'egli è costretto ad ammettere nel suo primo intervento -, anche se «con le ossa rotte», Mussolini cerca di ostentare una forzata sicurezza nella vittoria. Dopo la presa di Roma e lo sbarco in Normandia, non si avventura più a spandere fiducia. Semplicemente archivia la questione. Cerca piuttosto di spostare l'attenzione sul teatro internazionale. Punta allora i suoi strali contro l'infame nemico interno e soprattutto contro quello internazionale, baluardo dell'odiata plutocrazia. Si scaglia contro «il re fellone», «Vittorio Emanuele III e ultimo», contro Carlo Sforza «guitto dell'avanspettacolo», contro Badoglio «duca di Caporetto», contro i giornalisti e i generali, fino al giorno prima da lui foraggiati e ora passati al nemico. Li tratta tutti come infami traditori, al cui cospetto risalta per contrasto la schiena dritta del dittatore, solitario e, per questo, più ammirevole nel suo ruolo di guida indomita di un'Italia «debole ma guerriera». Mussolini minaccia contro di essi severe punizioni, accusandoli di essere gli unici responsabili del disastro militare. Quanto ai nemici esterni, li irride, cercando al contempo di falsificare la loro illusoria promessa di regalare «presunte libertà» ai popoli sconfitti. Roosevelt è «l'anticristo del XX secolo» nonché «criminale di guerra n. 1», Churchill «criminale di guerra n. 2». Un trattamento di favore riserva significativamente a Stalin, anch'egli dittatore, ma anch'egli benemerito per aver tentato almeno di realizzare quella «rivoluzione» che in Italia a Mussolini sarebbe stato impedito di realizzare.
Sul fascismo, sulla disastrosa guerra scatenata, sull'inferno procurato agli italiani, bocca cucita. Solo sporadici cenni al movimento partigiano. Mussolini si concentra preferibilmente sul «tradimento» del 25 luglio e dell'8 settembre, al cui confronto spicca la linearità, «la coerenza rivoluzionaria» del fascismo. Del regime Mussolini esalta in modo mirato le realizzazioni sociali. Insomma, il capo assoluto del nuovo stato fascista nulla dice di come intende far uscire il proprio Paese dall'abisso in cui l'ha cacciato. Preferisce ora il ruolo del commentatore, del polemista. Preferisce fare del giornalismo il suo ormai unico possibile «modo di esistere e di vivere». Tutto ciò mette ben in risalto come egli in questi anni si svesta dei panni del politico, tanto più di quelli dello statista, compreso della responsabilità del suo ruolo.
La sua, a ben vedere, è una sorta di fuga dalla realtà che ci dice molto del suo sentimento di resa ai tragici eventi che stanno travolgendo lui e con lui l'Italia intera, di consapevolezza dell'irrimediabile capitolazione in arrivo, della sua ininfluenza a correggere il corso degli avvenimenti.
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